Certi episodi valgono più per il loro significato simbolico che per la sostanza della questione sollevata. È il caso della cosiddetta norma salva-Berlusconi nel decreto delegato sul fisco, segnalata da un ottimo lavoro giornalistico. Se doveva essere la prova che nel patto del Nazareno esiste un lato oscuro, non ha retto alla luce del giorno: e non poteva essere altrimenti. L’operazione era maldestra, tanto maldestra da rendere verosimile che né Renzi né Berlusconi fossero i diretti responsabili del pasticcio. Talleyrand avrebbe rispolverato la sua celebre frase: "è peggio di un crimine, è un errore". Come dire che i due contraenti del patto avrebbero scelto meglio l’argomento e le modalità, se avessero voluto mettere a segno un colpo di tale rilievo qual è la riabilitazione pubblica del leader di Forza Italia. Perché di questo si tratta e il presidente del Consiglio si muove su un terreno scivoloso quando dichiara con sicurezza che la nuovanormativa fiscale, subito ritirata, non si sarebbe applicata a un condannato in via definitiva. Viceversa Berlusconi ne avrebbe tratto immediato vantaggio, come sempre quando il codice cambia a favore del reo. Tuttavia è anche vero che nessuno dei due, né il premier né il suo semi-alleato del Nazareno, hanno il minimo interesse oggi a riaccendere i riflettori su una stagione passata. Le norme "ad personam" in soccorso a Berlusconi rammentano tempi di nevrotica conflittualità che in definitiva non hanno portato fortuna né all’interessato né al Pd: hanno solo contribuito ad aprire la strada al movimento di Grillo. Tutta la strategia di Renzi, come pure dell’ultimo Berlusconi, sembra volta a non ripetere i passi falsi della fase precedente. Quindi è possibile che la norma, che pure era stata infilata nel decreto, sia passata per l’eccesso di zelo di qualcuno, ma senza un coinvolgimento politico ad alto livello. Tutto risolto, allora? Non proprio. La vicenda, o meglio la buccia dibanana, segnala che non tutto è fluido nell’intesa di legislatura fra il Pd renziano e il partito berlusconiano. In altri termini, non è questo il modo migliore di cominciare il 2015, giusto alla vigilia della discussione al Senato sulla riforma elettorale e a poche settimane dall’elezione del presidente della Repubblica. In fondo sono questi i due passaggi chiave in cui si riassume il senso e la ragion d’essere del patto del Nazareno. Due appuntamenti che devono essere affrontati con sufficiente coesione - e ancora non sappiamo se sarà così - , senza incidenti di percorso che offrono munizioni alle armi degli avversari. Fra due giorni prenderà il via con la legge elettorale la sfida politica destinata a influenzare gli equilibri di potere nei prossimi dieci anni. Sulla carta, come è stato notato più volte, Renzi e Berlusconi hanno i numeri per far passare l’Italicum e subito dopo eleggere un presidente della Repubblica gradito. Ma per evitare colpi di scenail premier ha bisogno di dimostrare al suo interlocutore che il Pd è nella sostanza unito (salvo le frange irriducibili); al tempo stesso Berlusconi deve offrire lo stesso pegno a Palazzo Chigi, garantendo che Forza Italia non è in via di dissoluzione. Ne deriva che il voto sulla riforma elettorale, se arriverà in tempo prima che il Parlamento si blocchi per l’elezione del successore di Napolitano, ha proprio questo significato strategico: rendere noto che il patto del Nazareno si fonda su due formazioni rispettose dei rispettivi leader e non su agglomerati parlamentari tentati dall’anarchia. Al riguardo, né Renzi né Berlusconi possono dormire tranquilli. Sulla legge elettorale c’è una zona grigia che riguarda aspetti tecnici di primo piano, dalle preferenze al numero dei "nominati" attraverso i capilista bloccati. Niente che non si possa risolvere con un compromesso, come il premier garantisce ai suoi, ma solo se esiste una volontà politica di fondo. Una volontà che devecomprendere anche il nodo del Quirinale. Stefano Folli,repubblica
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