Obama e i giovani neri di Ferguson
 











Era dal 1992, dagli scontri che seguirono l’assoluzione dei poliziotti che avevano pestato a sangue il tassista afro-americano Rodeny King, che l’attenzione sui rapporti razziali negli Stati Uniti non era così alta. Le proteste per l’uccisione degli afro-americani Michael Brown a Ferguson e Eric Garner a New York hanno dato vita a un movimento che si è rapidamente esteso a tutta la nazione, coinvolgendo più di 170 città e raggiungendo Washington, con una marcia che ha simbolicamente ricordato quella del 1963 in cui Martin Luther King pronunciò il celebre discorso “I Have a Dream”.
Ad alimentare la rabbia dei manifestanti sono state soprattutto le decisioni dei gran giurì del Missouri e di New York di non avviare procedimenti giudiziari contro i poliziotti che hanno ucciso Brown e Garner. Storie come quelle di Brown, di Garner o di Tamir Rice, il dodicenne afro-americano di Cleveland freddato lo scorso 22 novembre da un agente mentre giocava conuna pistola giocattolo, sono tutt’altro che episodiche. Da molti anni, infatti, movimenti dal basso denunciano i numerosi casi di violenza della polizia - che talvolta sfociano in omicidi - nei confronti di persone disarmate, in particolare verso giovani maschi neri, target prediletti di un sistema di giustizia che sembra allo sbando. Ogni 28 ore un afro-americano viene ucciso dalle forze di polizia, 312 sono stati i casi nel solo 2013. Non stupisce quindi che negli Stati Uniti i neri abbiano 21 volte più possibilità di essere uccisi da un poliziotto rispetto a un bianco.
Il movimento nato a Ferguson, che ha utilizzato slogan di successo come #blacklivesmatter e #Icantbreathe (le parole pronunciate undici volte da Garner prima di soccombere allo strangolamento del poliziotto David Pantaleo), è decisamente eterogeneo e accoglie una serie di rivendicazioni che prendono di mira le violenze degli agenti e la “profilazione razziale”, che chiedono una demilitarizzazione delle forze dipolizia e una riforma del sistema carcerario, ma che sono più in generale una critica al sistema di giustizia penale. Un sistema che perpetua un’iniquità sociale, politica ed economica a tutto danno delle comunità nere e che dai primi anni Settanta è il maggiore responsabile delle forti diseguaglianze legate al colore della pelle negli Stati Uniti. Un sistema che oggi tiene in carcere 2.3 milioni di persone, quasi due terzi dei quali di colore, e che ha diffuso una cultura della punizione e dell’emarginazione per i condannati, a prescindere dalla tipologia di reato.
In molti hanno associato questo movimento, che chiede una società più giusta e libera dal razzismo, al movimento di liberazione degli afro-americani degli anni Cinquanta e Sessanta. Proteste (perlopiù) pacifiche, attivisti non solo afro-americani, capacità di catalizzare il dibattito pubblico nazionale, sostegno di una buona parte dell’opinione pubblica (anche se alcuni sondaggi evidenziano una persistente polarizzazionerazziale rispetto alle proteste), appoggio dei media internazionali agli attivisti, sono tutti elementi che rievocano quegli anni cruciali per la storia statunitense.
Per quanto questa ipotesi possa risultare affascinante, sembra tuttavia che il movimento tragga piuttosto le proprie basi e convogli le esperienze di altri movimenti sociali nati più o meno spontaneamente negli anni scorsi, come Occupy Wall Street, il movimento per il salario minimo e quello per chiedere giustizia per Trayvon Martin. Molte delle organizzazioni che capeggiano le proteste non sono strutturate a livello nazionale e non sono in grado singolarmente di catalizzare la vastità delle rivendicazioni del movimento. Si tratta spesso di piccoli gruppi attivi a livello locale, alcuni dei quali nati nelle ultime settimane, che stanno gradualmente organizzandosi per trovare una direzione comune e per definire gli obiettivi.
Non mancano neppure gli attriti tra le diverse organizzazioni. I giovani attivisti diFerguson, vera forza trainante delle proteste, accusano molti leader dei diritti civili di rubare loro il palcoscenico e di cavalcare il successo del movimento per tornaconti personali. Una questione emersa chiaramente proprio durante la marcia di Washington, dove a un gruppo di militanti di Ferguson è stato impedito di parlare dal palco gestito del reverendo Al Sharpton, leader nazionale e politico di lungo corso che sembra aver poco a che fare con le nuove leve di manifestanti. Si tratta di giovani e giovanissimi, spesso alla loro prima esperienza di attivismo politico, cresciuti negli anni di Obama e poco avvezzi al compromesso, attivi su internet, ma pronti a scendere nelle strade e a spendere energie e tempo nel movimento. Organizzazioni storiche e ben strutturate come la NAACP ricoprono oggi solo un ruolo marginale, incapaci di canalizzare le richieste dei giovani e travolte dalla loro abilità di organizzarsi efficacemente e in breve tempo.
Resta da capire, perché adesso?Certamente i video di afro-americani disarmati uccisi dalla polizia hanno scosso le coscienze di molte persone, così come lo hanno fatto le risposte degli agenti alle proteste pacifiche, soprattutto a Ferguson. Poliziotti in tenuta da guerra con fucili automatici e granate stordenti, che hanno trattato i manifestanti alla stregua di un movimento rivoluzionario, hanno aggiunto panico e tensione a una situazione già potenzialmente esplosiva e creato scompiglio nell’opinione pubblica. Oltre a questo, deve essere considerato il senso di urgenza dovuto al fatto che il mandato di Obama scadrà fra 2 anni. Il cambiamento di cui si era fatto promotore il presidente, per molti, in particolare per la gente di colore che era stata (ed è stata, nelle ultime elezioni nazionali) la sua base elettorale più solida, non è arrivato. Alcuni influenti intellettuali afro-americani, tra cui Cornel West, sostengono che i recenti avvenimenti segnino la “fine dell’era di Obama”, la “fine della speranza” e ildefinitivo scollamento del presidente dai suoi elettori. Questa potrebbe essere dunque l’ultima occasione per far leva su Obama affinché accolga le richieste del movimento.
Con il Congresso in mano ai repubblicani, tuttavia, avviare riforme a livello federale risulta complesso. La strada percorribile nel breve termine potrebbe essere quella di tenere alta la tensione stato per stato affinché vengano abrogate molte delle leggi repressive - in gran parte eredità delle guerre alle droghe degli ultimi quarant’anni - che hanno preso di mira e che continuano a prendere di mira principalmente le comunità di colore. Tuttavia, porre fine alla “profilazione razziale” della polizia necessita un cambiamento culturale che purtroppo non potrà che essere graduale. Non sarà possibile impedire ai Darren Wilson di scambiare un ragazzo di 18 anni per un superuomo dalle sembianze demoniache - così l’agente che ha ucciso Brown ha descritto il ragazzo - attraverso provvedimenti legislativi, ma certamenteuna chiara volontà da parte dell’amministrazione democratica e dei governi statali di riformare il sistema di giustizia rappresenterebbe un ottimo punto di partenza.
Nei giorni scorsi Obama ha ricevuto alcuni giovanissimi attivisti del movimento alla Casa Bianca e ha dichiarato che il Dipartimento di Giustizia lavorerà per dare loro delle risposte immediate. Il presidente, in una successiva intervista alla tv afro-americana Bet, ha anche detto che da un lato intende avviare una demilitarizzazione delle polizie locali, obbligando gli stati a seguire le direttive federali dietro minaccia di un taglio dei fondi; mentre dall’altro ha predisposto l’attuazione di programmi di addestramento volti a limitare l’uso eccessivo della forza da parte degli agenti. Entrambi i rimedi sembrano tuttavia poco efficaci nel breve periodo e non rispondono a quel senso di urgenza che caratterizza il movimento. Poco efficace potrebbe risultare anche la decisione di stanziare 75 milioni di dollari perequipaggiare 50mila agenti di telecamere che riprendano il loro operato. In molti casi, non ultimo quello di Garner, gli agenti hanno ucciso uomini disarmati pur sapendo di essere sotto gli occhi delle telecamere.
Colto in un limbo tra competenze statali e federali e condizionato dal Congresso in mano ai repubblicani, il rischio è che Obama riesca soltanto a curare con un’aspirina un cancro diffuso in tutto il paese. Quello che pare certo è che non si può tornare indietro e che difficilmente i giovani attivisti interromperanno le loro proteste senza aver ottenuto qualcosa di concreto. Lo storico statunitense Howard Zinn scriveva che i movimenti sociali hanno il potere di cambiare la società e di renderla più giusta, la speranza degli attivisti è che il processo di cambiamento sia iniziato, e che sia irreversibile.micromega-Alberto Benvenuti









   
 



 
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