Non siamo in una piazza di contestatori, ma tra le auguste mura della London School of Economics, da anni cuore pulsante degli studi sulla globalizzazione. Facce da bravi e studiosi ragazzi. Qui Michael Sandel, 59 anni, docente di "Government" a Harvard e vera stella globale della filosofia politica, fa ogni anno - davanti a migliaia di studenti - qualcosa di più di una lezione: una sorta di teatro "socratico" dove parlare di idee e valori, in diretta streaming con decine di altre università in tutto il mondo, compresa la Cina. E qui l’altro giorno Sandel ha posto ai suoi studenti una domanda volutamente forte è provocatoria: è giusto che un banchiere sia pagato più di un’infermiera? In Gran Bretagna, per capirci, la paga di un’infermiera è di circa 20 mila sterline. L’amministratore delegato della Barclays, Bob Diamond, ha appena portato a casa un bel pacchetto da 18 milioni. Ne è seguito intenso e vicave dibattito con i ragazzi, con voto peralzata di mano finale: no, alla fine gli studenti hanno deciso che non è giusto. Al termine della conferenza, il filosofo americano ha risposto alle nostre domande. Professore, allora i banchieri devono guadagnare più delle infermiere sì o no? «Il punto di questi esperimenti di ’public philosopher’ non è offrire la mia ’verità’ ma stimolare il dibattito su certi temi considerati intoccabili. La mia risposta comunque è che certe differenze non sono giustificate». Il movimento ’Occupy’ ha sollevato il velo della disuguaglianza negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Come la giudica da filosofo e da cittadino? «Da tempo sono un critico delle disuguaglianze crescenti nelle nostre economie, che a mio avviso sollecitano serie questioni sull’ingiustizia e quello che deve essere il ruolo proprio dei mercati in una società democratica. Non credo che i mercati di per sé possano definire un’idea di giustizia più del concetto, arduo ma inevitabile, di bene comune». I mercati in quanto’ciechi aggregati di preferenze’ non sono l’unica, migliore soluzione? «Siamo scivolati nell’assunto che i mercati siano gli strumenti primari per ottenere il bene comune. E’ urgente che questo venga messo in discussione. E ho provato a farlo nel prossimo saggio, che uscirà ad aprile e si intitola ’Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali dei mercati’». E quali sarebbero? «Bisogna chiedersi se ci sono beni e pratiche sociali che non dovrebbero essere regolate da meccanismi di puro mercato ma da valori diversi. La famiglia e le relazioni personali in primo luogo, ma anche istituzioni sociali più larghe come educazione, salute, cittadinanza e sicurezza, protezione ambientale. Molti assumono che il mercato può risolvere queste questioni e allocare al meglio questo tipo di beni. Non mi sembra così evidente». Tornando alla paga dei banchieri, perché un amministratore delegato dovrebbe guadagnare di più, ma non così tanto di più, di un’infermiera? «Innanzituttooccorre sgombrare il campo dall’idea che il banchiere si meriti moralmente queste somme. E’ un errore assumere che la gente che fa un sacco di soldi ha un ’diritto morale’ di tenerseli tutti. E questo solleva il dibattito sul tema della redistribuzione e della meritocrazia (il successo è merito dell’individuo o frutto anche delle circostanze e di quello di cui la società ha bisogno in un dato momento?). La sola base ragionevole a mio avviso sono gli incentivi e il contributo all’efficienza dell’economia che il ruolo di un banchiere comporta». Dunque i banchieri possono promuovere il benessere più delle infermiere? «Non credo che i banchieri mostrino virtù superiori che li intitolano per sé a guadagni maggiori. Per efficienza intendo un argomento puramente utilitario, che tuttavia ha certi limiti. Certo è ragionevole organizzare istituzioni sociali che incrementino le attività economiche e la ricchezza, ma questo canone non dovrebbe essere assolutizzato». Qual è allora il puntoche segna la soglia dell’ingiustizia? «Molte banche dicono ’se non possiamo pagare certe cifre perderemmo talenti eccezionali’. Ma questi proclami vanno esaminati con scetticismo per vedere se è vero. Guardando al divario di stipendio tra un Ceo e un semplice lavoratore ci sono enormi variazioni storiche e geografiche: negli Stati Uniti siamo a un rapporto di 350 a uno, in Gran Bretagna 120 a uno, in Giappone e Europa le differenza sono meno drammatiche. E difficilmente si potrebbe sostenere che i dirigenti di quelle banche siano tutti meno capaci degli altri. Anche quaranta anni fa queste differenze non esistevano, e non certo per mancanza di talenti». La filosofia dunque può aiutare a smascherare le bugie? «Penso che il discorso politico possa trarre beneficio da un’attenzione più esplicita ai principi, alle idee e ai valori che si agitano sotto la superficie delle nostre discussioni». Alla democrazia c’è chi rimprovera una lentezza nel decidere. Discutere troppo non èinutile? «Penso che sia inevitabile. Quando qualcuno esprime un’opinione, che sia ben considerata o intuitiva, esprime certe convinzioni etiche, magari inconsapevolmente. Quel che la filosofia fa è esaminarle da vicino». Il suo è anche un richiamo all’importanza della politica? Lei sembra piuttosto sospettoso su un sapere "tecnico" calato dall’alto. «Sì, una politica puramente tecnocratica non si sostiene a lungo. Può essere un utile espediente di breve termine, ma non provvedere una base duratura per una democrazia. Non voglio discutere la situazione italiana o di altri Paesi, che non conosco nel dettaglio, e non nego che una parentesi tecnocratica possa aiutare a risolvere certe emergenze. Ma di certo non può rimpiazzare una politica democratica. Che riguarda i valori in competizione tra loro». E’ una lotta inevitabile? «Non direi una lotta, è un dibattito. E questo è diverso perché significa discutere, ragionare insieme, in pubblico, sui principi che contano. Ladiscussione, a volte, aiuta a cambiare idea». Nel suo libro ’Giustizia’ lei aveva apprezzato la capacità di Barack Obama di parlare a nome di valori e speranze superando la visione asettica di un certo mondo liberal. Dopo cinque anni, è ancora di questo avviso? «L’idea che mi sta a cuore è sottolineare come il concetto di ’bene comune’ non sia intrinsecamente legato a una politica reazionaria. Certo ci sono i talebani. Ma c’è stato anche Martin Luther King, e altri personaggi capaci di articolare un discorso politico con una forte carica morale, direi quasi spirituale. Sì, Obama può ancora giocarsela e segnare un punto. Ma certo molte di quelle energie, quella carica di passioni e partecipazione, sono state purtroppo disperse». Daniele Lorenzetti-l’espresso
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