La libertà d’opinione dà fastidio al moderno autocrate
 







Paolo Ciofi




Prima, con il taglio dei contributi pubblici, la volontà di soffocare la stampa di opposizione che non fa capo ai gruppi economici dominanti. In particolare di quella stampa - come Liberazione e il manifesto - che si rifà al movimento dei lavoratori e ha ancora il coraggio di denominarsi comunista. Poi, con la legge bavaglio, la negazione del diritto all’informazione con l’obiettivo di mettere sotto controllo un potere autonomo come la magistratura, che sta portando alla luce oscuri maneggi di nuove cricche e confraternite. Infine - sotto i colpi di una crisi che rende esplicite la cialtronesca inconcludenza e insieme la feroce impronta classista del governo - l’imposizione del silenzio a chi dissente, pena l’espulsione da un partito chiamato Popolo della Libertà.
Una sequenza che fa di Berlusconi, al di là delle sue inclinazioni personali spesso grottesche, un prototipo dell’autocrate moderno nell’età della globalizzazione e dellaprivatizzazione universali, un’incarnazione pressoché perfetta del potere fondato sul dominio del denaro e sul controllo del sistema dei media. Ma se chiedete a Pierluigi Battista, il giornalista-ideologo del Corriere della sera vi risponderà (berlusconianamente) che la soppressione della libertà d’opinione all’interno stesso del partito della libertà (e dell’amore) è l’effetto di una sindrome leninista dura a morire, come ha scritto sul suo giornale il 26 luglio.
Non si vuole ammettere, come ha dichiarato in tempi non sospetti l’alter ego del Cavaliere e proprietario della Repubblica, De Benedetti, che «un imprenditore è per sua natura un autocrate» e «non ha il Dna adatto a partecipare al gioco democratico». Nella società che si vuole fondata sulla cultura d’impresa e sul business, la politica diventa un’attività altamente improduttiva salvo per chi la esercita a beneficio del capitale. Perciò viene sistematicamente denigrata e messa alla gogna con un duplice scopo: cancellarlacome mezzo di trasformazione della società al servizio delle classi subalterne, e ridurla al rango di funzione tecnica a disposizione del capitale, in uno spazio opaco in cui inevitabilmente cresce il losco intreccio con gli affari, che a sua volta alimenta l’opera di distruzione della politica medesima.
Quando i partiti non sono più la nomenclatura delle diverse classi, come argomentava Gramsci, ma le nomenclature di un unico ceto dominante, cambia il carattere del conflitto, la modalità della sua rappresentazione, il significato stesso delle parole sotto la pressione di veri e propri apparati ideologici volti alla sterilizzazione culturale e politica di grandi masse. Perciò c’è bisogno, nell’interesse stesso della democrazia, di un punto di vista autonomo e alternativo. E di un quotidiano come Liberazione, nettamente schierato dalla parte degli operai e dei lavoratori, che va incoraggiato e potenziato, e che intendo concretamente sostenere sottoscrivendo due abbonamenti a favoredi due circoli di Roma perché lo espongano nelle loro bacheche.









   
 



 
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