Cocaina e ti dirò chi sei
 











Da Freud alla Coca cola tutte le piste di una storia occidentale
«Nel 2011 i consumatori di cocaina saranno circa 700mila, il 5% in più rispetto al numero di consumatori del 2008». Scriveva il Corriere della Sera quest’estate. E questo è solo uno dei continui articoli, inchieste, scoperte che i mezzi di informazione pubblicano quasi quotidianamente sulla cocaina. Come se il grande consumo della sostanza fosse stato scoperto soltanto adesso. Invece, quella della cocaina è una storia che non inizia neanche in questo millennio bensì si perde nella notte dai tempi. Recentemente le nuove tecnologie hanno potuto trovare traccia nei capelli di mummie cilene del 2000 a.c. della presenza di benzoilecgonina, un metabolita della cocaina. Al nostro secolo si deve tuttavia l’uso degli effetti per la ricreazione, il proibizionismo, ma soprattutto il grande volume d’affari.
Nel 1884 il dottor Sigmund Freud pubblica un volumetto a lui tanto caro Uber Coca . Ilpadre della psicanalisi racconta con molto entusiasmo, la scoperta di questa sostanza sperimentata su sé stesso per curare la depressione. In una lettera  del 21 aprile del 1884 così racconterà alla fidanzata: «Ho letto della cocaina (….) Me ne sto procurando un po’ per me e poi vorrei provarla per curare le malattie cardiache e gli esaurimenti nervosi…». Purtroppo però la natura è crudelmente avara nel dispensare il piacere. Più l’esperienza è eccitante, più il cervello soffre quando si rende conto che è già finita. Con il passare del tempo, Freud si accorge che ci volevano dosi sempre più forti o più frequenti per ottenere lo stesso risultato tanto che molti dei suoi pazienti finirono per assuefarsi. Così come il patologo e suo amico Ernst Fleischl, che diventerà  tristemente noto alla storia come il primo caso di psicosi cocainica. Tuttavia Freud una cosa l’aveva capita molto bene: la possibilità di sfruttare questa sostanza per trarne un profitto, il suo sogno era quellodi comprarsi finalmente una casa. E molti dopo di lui seguirono questa strada.
Così il giovane chimico corso Angelo Mariani che a Parigi produsse quell’ottimo vino con estratti di coca che tanto Papa Leone XIII raccomandò per le messe cantate apparendo addirittura in un manifesto per farne pubblicità; mentre l’intraprendente farmacista americano John Pemberton che produsse una delle bevande ancora più bevute al mondo: la Coca cola. Ogni bottiglietta, prima del proibizionismo, conteneva l’equivalente di una piccola dose di cocaina. «Oggi la cocaina vale più del suo peso in oro. Il suo prezzo è all’origine circa il quattro per cento del prezzo di vendita al dettaglio» scrive il docente di Farmacologia di Cagliari, Gian Luigi Gessa nel suo libro Cocaina (Rubbettino, 2008), che aggiunge come «La rivista Fortune colloca l’industria della cocaina illegale al settimo posto nella lista delle cinquecento maggiori imprese economiche, tra Gulf Oil e Ford Motor Company».
Nel 2003 levendite della sostanza nelle strade americane hanno raggiunto i 35 miliardi di dollari. E non appena il mercato statunitense si è saturato, quelli in Europa si sono mostruosamente aperti. Tanto che oggi la cocaina non è più esclusiva degli strati abbienti della società, non è appannaggio di fotomodelle o imprenditori, oggi si trova  raccolta in "pezzi", appallottolata nelle tasche della gente comune, nelle borsette delle signore, nei portafogli del lavoratori, negli zaini degli studenti, nella cassaforte dei politici, ovunque. Ne hanno trovato percentuali imbarazzanti perfino nelle acque dell’Arno e residui in quasi tutte le banconote che maneggiamo. Pippata, scaldata, tagliata, fumata oggi la cocaina viene usata indistintamente con o senza permesso di soggiorno, con o senza contratto a tempo indeterminato, ricco o povero, uomo o donna che sia. A fronte di una politica del guadagno folle che sta giustificando militarizzazioni e politiche proibizioniste che riempiono le galere.
Potremmo dire che è tutta colpa degli inca? Gli abitanti dell’area compresa tra Colombia, Perù e Bolivia, dove si producono i tre quarti della cocaina del mondo, masticano foglie di coca da migliaia di anni. Non solo per le sue proprietà stimolanti - che cancellano la fatica e danno l’energia necessaria per affrontare le ripide salite nell’aria rarefatta di quella regione montuosa - ma anche per le sue qualità alimentari, poiché le foglie contengono vitamine e proteine. Poi arrivarono i conquistadores con il loro divieto definendola "uno strumento del diavolo", per poi scoprire che senza quel "dono degli dei" gli indigeni non riuscivano a lavorare nei campi o a estrarre l’oro. Improvvisamente la coca fu legalizzata e anche tassata e gli invasori cominciarono a tenere per sé un decimo dei raccolti. Le foglie erano distribuite ai contadini tre o quattro volte al giorno, durante le pause dal lavoro. Addirittura la chiesa cattolica cominciò a coltivarla. Poiché le foglie sopportavanomale il viaggio venivano esportate in Europa solo sporadicamente, così negli Stati Uniti, come nel Vecchio Continente ben presto arrivò la sostanza lavorata e in polvere. Una storia che però si ripete ancora oggi.
Nel 2006 il regista Andrea Zambelli si reca in Colombia per un progetto di alfabetizzazione comunicativa, qui realizza Mercancia , un documentario che segue tutto il processo di "fabbricazione" di questa sostanza nella regione del Magdalena-Medio, nei vari passaggi di produzione fino alla pasta. Ma soprattutto raccoglie il racconto degli stessi contadini e si sofferma sui gruppi paramilitari che gestiscono gli scambi della cocaina fra campesinos e narcotrafficanti. Dalla raccolta della pianta fino alla raffinazione ogni passo viene tassato dai gruppi paramilitari come una qualsiasi transazione economica. In venti velocissimi minuti, il regista mostra l’esistenza di una piccola comunità di coltivatori dalle tradizioni salde e dalla vita rurale. Nulla di più distante,dunque, da ciò che nel nostro immaginario può rappresentare un narcotrafficante. Nessun campesinos, infatti, è consumatore o fruitore della cocaina, né partecipe, se non in minima parte, degli incredibili guadagni legati al commercio di questa sostanza. In questi paesi, costretti spesso a lavorare nei campi di coca per poter sostentare le proprie famiglie, i contadini tramandano di padre in figlio la tradizione per la raccolta e la preparazione della pasta. L’opprimente condizione imposta dai narcotrafficati e i metodi brutali di repressione dei paramilitari impediscono la formazioni di oppositori e i pochi sindacalisti che coraggiosamente si mettono contro di loro vengono spesso messi a tacere. Ed è proprio questo il problema principale: il guadagno. Nelle nazioni di produzione un grammo di cocaina (come reso noto dalle Direzioni internazionali per la lotta alla droga) viene pagato un euro per una purezza pari al 95%. Sul mercato occidentale bene che va viene rivenduta con soltanto il25-30% di principio attivo, con un guadagno del 1.200%. Del resto Roberto Saviano in Gomorra ci parla di un «fatturato 60 volte superiore a quello della Fiat». E questo solo in Italia. Sarà per questo che la cocaina viene chiamata "il petrolio bianco", il vero miracolo del capitalismo contemporaneo, in grado di superare qualsiasi crisi economica. Così i mercati crollano e il prezzo della cocaina in Occidente scende ma non quello del fatturato. Un vero affare.Cristina Petrucci
Dai gangster di De Palma agli impiegati ordinari
Cocaina e cinema. Ripetizione con lo sguardo di un movimento di macchina indotto. Carrellata a destra, o sinistra, per seguire la tirata di coca del protagonista di turno. Direzione inusuale del mezzo, dinamica liberatoria dello spirito, rapida occhiata dello spettatore sulla striscia bianca che appena apparsa scompare. Decine gli esempi tradizionali, due i capisaldi devianti per esemplificare l’assunto. Ray Liotta, alias Henry, in Quei braviragazzi (1990, Martin Scorsese) si mette a fare lo spacciatore di cocaina dopo una carriera da blasonato tirapiedi della mafia. Sequenza dopo sequenza, sempre più congestionato dagli effetti della coca, Liotta "pippa" una dose da un tavolino casalingo. Scorsese fa compiere alla macchina da presa un movimento in avanti, a seguire il percorso aereo della cocaina inalata. Non siamo più semplici osservatori dell’atto, ma ne diventiamo brulicante polvere attiva, sorta di urticante soggettiva cocaina. A pari di Liotta sta Al Pacino nei panni del boss cubano Tony Montana in Scarface (1983, Brian De Palma). Scacciato da Cuba, perché come dice Castro ad inizio film «non si è adattato alla nostra rivoluzione», Montana sbarca a Miami e in breve tempo surclassa un boss della droga statunitense, instaura la sua struttura criminale e va a procurarsi la "bamba" direttamente dalla Colombia. Scritto da Oliver Stone (che poi privatamente di cocaina per poco non creperà) Scarface culmina in un massacrodove Montana rimane catatonico a sedere sul trono regale con davanti a sé una montagna di cocaina. De Palma non compie nessun movimento di macchina, ma lascia Pacino immerso in questa massa bianca, dietro la quale ogni tanto scompare per poi riemergere con la punta del naso imbiancata.
De Palma, più di Scorsese, "apripista" della rappresentazione visiva di un soggetto che conferma la sua debordante presenza sociale proprio all’inizio degli anni ’80. Poco prima, e contemporaneamente, c’era stata l’eroina; prima ancora l’lsd. Ancora più indietro il "codice Hays". Ovvero quel morigerato libello zeppo di restrittive e puritane linee guida per la produzione cinematografica che ha imperversato nel cinema americano, quindi occidentale, dal 1930 al 1967. Tra divieti di nudo, di rappresentazione dell’omosessualità, di sesso tra razze diverse, c’era ovviamente finita anche la droga. Irrappresentabile fino a quando non prorompono la New Hollywood con Easy rider (1968, Dennis Hopper) asdoganare gli acidi lisergici e in Europa film come Christiane F. (1981, Ulrich Edel) o Amore tossico (1983, Claudio Caligari) a mostrare in dettaglio le pere di eroina. L’affermarsi della coca in primo piano ravvicinato è questione di pochi anni. Ci aiuta a spiegarlo il monologo iniziale in voce over dello spacciatore di cocaina XXXX (Daniel Craig) nell’inglese The Pusher (2004, Matthew Vaughn): «Negli anni ’90 la sniffata di bianca era roba da cantanti rock o feste miliardarie e veniva demonizzata dai lettori della stampa popolare che si sbronzavano di alcool all’osteria: oggi sono loro i miei migliori clienti».
La rappresentabilità cinematografica della cocaina va di pari passo con la sua proletarizzazione sul mercato. Prima esclusivo uso e consumo dei boss della mala che sniffano; successivamente sentita intrusione tra classi sociali più basse. Il nullatenente protagonista (James Woods) del moralisteggiante Cocaina (1988, Harold Becker) parifica la scalata al successoprofessionale (i prodromi dei subprime immobiliari) all’assunzione compulsiva di coca, facendo andare famiglia e lavoro in malora. Con un occhio l’America hollywoodiana demonizza, mentre con il naso pippa. Se pensiamo all’ancor giovane Robert Downey Jr., uno degli attori più devastati dalla tossicodipendenza di coca, protagonista di Al di là di tutti i limiti (1987, Marek Kanievska), un film che trasforma il romanzo gravido di coca firmato da Bret Easton Ellis in un filmetto sentimentale, comprendiamo l’ipocrisia dello star system statunitense. Non che in Italia possiamo definirci dei rischiosi sperimentatori visivi ed etici. Il tabù rimane solido perfino nell’attimo della sua tanto attesa rappresentazione. Da Johnny Stecchino (1991, Roberto Benigni) dove la si butta in vacca in un compassionevole registro tra demenziale e buonista (ricordate la gag dell’handicappato che sniffa?), fino ad A casa nostra (2006, Cristina Comencini) dove Luca Argentero e Laura Chiatti tirano un paio dirighe nel post copula, come se assumessero un calmante per il sonno. Unici esempi realistici e virtuosi sono le pippate dei malavitosi in Romanzo criminale (2005, Michele Placido) o quelle di Tony Pisapia (Toni Servillo) in L’uomo in più (2001, Paolo Sorrentino).
Rimangono aperte le attuali frontiere dove la cocaina scorre a fiumi in mezzo alle figure più impensabili delle nuove città: impiegati, commessi, semplici operai alle prese con cannula e piattino. Il totalizzante Polvere (2007, Massimiliano d’Epiro e Danilo Proietti) dove nemmeno i preti sono esenti dalla sniffata o, uscendo all’estero, la trilogia danese Pusher (1996-2004-2007, Nicholas Winding Refn) e lo spagnolo After (2009, Alberto Rodriguez) triangolo esistenziale donna più uomo condito di disco, sesso, alcol e piste di coca. Difficile continuare a spettacolarizzarne l’uso: la cocaina si consuma a quintali dappertutto. E per coglierne la fenomenologia, al cinema basterebbe uno sguardo neorealista alla Vittorio De Sica.Davide Turrini
Ansia e performance
Cocaine. Cocaina al plurale. La stessa sostanza sembra accompagnare tante vite comuni, scandendone l’esistenza tra un pranzo con i genitori e una settimana in ufficio, ma anche vite già segnate da altri abusi, da altre dipendenze. Conosciuta e apprezzata da molti giovanissimi come mai era successo nel nostro paese, si può cercare, e trovare, praticamente ovunque. Da anni le équipe impegnate in attività di prevenzione e riduzione dei rischi nei contesti del loisir notturno andavano affermando che lei, la cocaina, era diventata la vera regina del week-end, navigando trasversalmente attraverso le età, le condizioni socioeconomiche, il genere. Gli stili di assunzione che appaiono a questi operatori sono molti diversificati, coprendo tutto lo spettro delle possibilità, dal consumo sporadico e/o occasionale di carattere ricreazionale sino alla compulsività, nella ricerca della sostanza e nell’uso, di coloro che manifestano fortiproblematicità e dipendenza. Dalla metà degli anni Novanta, accanto alla diversificazione dei contesti notturni, non più centrati sulla discoteca e estesa sino alle micro aggregazioni dei festini in case private, si è assistito alla assunzione di centralità della cocaina nei policonsumi, senza che questo fenomeno imponesse un adeguamento dei Ser.T. per affrontare i nuovi bisogni di assistenza, né un potenziamento di quelle attività di prevenzione, contatto e riduzione del danno che possono garantire adeguatezza e tempestività di risposta proprio laddove i consumi di cocaina avvengono.
Accanto alla cocaina del loisir, dei giovanissimi, degli ultraquarantenni ancora in famiglia o con famiglia, esiste la cocaina in vena, nuova sostanza primaria di molti tossicodipendenti già da eroina. Di certo, molti tossicodipendenti che trovavano nell’eroina forme di compensazione, con la coca scompensano, hanno atteggiamenti aggressivi e a volte deliranti, hanno una percezione del rischio pari azero, con una bassissima cura di se. Inoltre non si sa bene cosa fare quando stanno male, in assenza di un omologo del naloxone, che risolve molti casi da overdose da eroina. (Per una trattazione più completa si veda: Claudio Cippitelli, "Consumi al plurale", in Fuoriluogo , supplemento mensile de Il Manifesto , 27 febbraio 2004).
Emersione, altro che emergenza. Sequestri giornalieri: dosi in palline per studenti, professionisti, operai, rinvenimenti eclatanti di tonnellate di coca nei tir che traversano la nazione. Inchieste giornalistiche, speciali televisivi; il mondo dello spettacolo e della politica coinvolti, con un clamore sempre più privo di stupore, consumo che si fa routine, mainstream, luogo comune. Convegni delle più importanti società scientifiche, ricerca di nuove metodologie nelle terapie, annunci di vaccini in grado di risolvere la questione. Quale questione? L’emergenza cocaina.
Clamore senza stupore. La pandemia di consumi di cocaina, l’abbassamento dell’età diconsumo, l’innalzamento dell’età dei consumi, nei maschi come nelle femmine, coca tirata da nasi abituati al tannino da 50 euro la bottiglia come da nasi che si accontentano del vino in cartone. L’emergenza, la scoperta di un paese che è in sintonia, che ha consuetudine con una delle droghe più presenti nella letteratura, nella musica, nel cinema, insomma nella cultura del Novecento e ora degli anni 2000. La cocaina: non c’è forse sostanza psicotropa, se si eccettua l’alcool e il superalcool, che possa godere di buona stampa come la polvere derivata dalle foglie di coca.
La tragedia dell’insufficienza. La tesi di Alain Ehrenberg (Sociologo, dirige il gruppo di ricerca Psychotropes, Politique, Société del Cnrs) sembra fornire strumenti esplicativi assai convincenti: «L’azione si è oggi individualizzata. Fa capo a un soggetto, un agente, che la effettua e ne è l’unico responsabile. Oggi, si può dire, è l’iniziativa individuale il primo parametro di valutazione del valore di unapersona (…). Insomma, le regole appaiono radicalmente mutate, qualunque sia il settore - impresa, scuola, famiglia - preso in esame. Non più obbedienza, disciplina, conformità all’etica corrente, bensì flessibilità, spirito di cambiamento, rapidità di adattamento, ecc. Padronanza di sé, duttilità psichica e affettiva, capacità di azione/reazione fanno in modo che ciascuno si senta in dovere di adeguarsi in permanenza a un mondo che sta appunto perdendo la sua permanenza, un mondo instabile, provvisorio, con fluissi e traiettorie sobbalzanti come i tanti denti di un ingranaggio perverso. Anche la leggibilità dello scenario sociopolitico è offuscata. Queste trasformazioni istituzionali trasmettono una sensazione di confusione, la sensazione che tutti, anche i più umili e sprovveduti, si debbono assumere l’onere di scegliere tutto e decidere tutto» (Alain Ehrenberg, La fatica di essere se stessi , Einaudi, 1999).
Il sociologo francese evidenzia come la contrapposizione, valida sinoagli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo, tra ciò che è permesso e ciò che è vietato è stata ormai sostituita, nella mente dell’uomo occidentale, dalla scelta alternativa tra ciò che risulta essere possibile e ciò che è ritenuto (per ora) impossibile.
All’affievolimento della nozione di divieto fa seguito la riduzione drastica del ruolo della disciplina nelle forme di regolazione del rapporto tra individuo e società, forme, dice Ehrenberg, «che oggi fanno appello più alla decisione e all’iniziativa personali che all’obbedienza disciplinare. La persona non è mossa da un ordine esterno (o da una conformità alla legge), ma occorre che faccia appello a risorse interne, a competenze mentali proprie» (op. cit.).
L’iniziativa è divenuta una regola comune, valida a tutti i livelli societari, e misura ciascuno di noi, descrivendo chi è all’interno di una sorta di "spirito generale" della nostra società e chi ne risulta inevitabilmente emarginato. La patologia che tale assettosocietario porta con se è, secondo Ehrenberg, la depressione che «è una tragedia dell’insufficienza: l’ombra anche troppo familiare dell’uomo senza guida, intimamente spossato dal compito di diventare semplicemente se stesso e tentato di sostenersi con l’addittivo dei farmaci o dei comportamenti compulsivi» (op. cit.).
Per molte persone, la cocaina svolge il ruolo di un farmaco, autoprescritto e autosomministrato: «Eludere la depressione è ormai semplice come evitare di rimanere incinta: prendete la vostra pillola e sarete felici» si legge su Lancet nel 1990 ("Les inhibiteurs de la recapture de la sérotonine", in The Lancet , ed. francese, 1990, citato in Ehrenberg, op. cit.); l’autorevole rivista scientifica fa riferimento a quel mercato degli antidepressivi che, a partire dalla metà degli anni Settanta vede un incremento esponenziale, tale da rendere il Prozac il secondo farmaco più venduto in Francia nel 1995. La cocaina segue questa traiettoria nella società italiana e, proprioa partire dalla seconda metà degli anni Novanta, vede rafforzare la sua quarta posizione tra le sostanze psicotrope consumate (nell’ordine alcol, superalcol, cannabis e cocaina). La presenza della depressione come patologia nello stesso tempo di massa e societaria, rappresenta uno dei possibili fattori esplicativi della straordinaria diffusione dei consumi della cocaina in Europa e in Italia.
Ma non solo: le forme di tali consumi e l’estrema varietà dei cluster sociali coinvolti (distinti per età, genere, ceto, cultura, ruoli…) costringono a non pervenire a inferenze definitive. Anzi, piuttosto che di cocaina, forse occorre parlare di cocaine, al plurale, per descrivere come la stessa molecola possa accompagnare personalità, ruoli e status assai diversi, motivando, come si è visto dai dati, per tanti individui un uso sporadico, per molti un uso frequente; per una percentuale assai più contenuta consumi problematici e dipendenza. Inoltre, è assai significativo il panorama deiconsumi nei quali si inseriscono quelli di cocaina: in altre parole, a cosa si giustappone la striscia (alcol e superalcol? Cannabis? Oppio? Ketamina? Eroina fumata? Tutti questi?), o a cosa si sovrappone, cosa sostituisce (eroina iniettiva, nel caso dei dipendenti da oppiacei che si riconvertono alla cocaina, per opportunità di mercato, per la qualità della sostanza…).
Non è la droga solo di chi lavora, né la droga del tempo libero. Anzi, la cocaina aiuta a comprendere come tale distinzione sembra non avere più senso: «La formula magica di Goethe per strutturare la quotidianità all’inizio dell’epoca industriale - "Di giorno il lavoro!/ ospiti la sera!/ Dure le settimane!/ Liete le feste!» - non è più proponibile in un regime di deregolamentazione e fluidità dell’organizzazione del lavoro come quello attuale. Di conseguenza anche la distinzione tra droghe da lavoro, per incrementare la produttività, e droghe da tempo libero, per raggiungere uno stato di benessere psichico, è ormaiinutilizzabile» (G. Amendt, No drugs no future, le droghe nell’età dell’ansia sociale , Feltrinelli, 2004).
Nella citazione di Amendt gli individui nella società postindustriale sono lasciati all’autoresponsabilità, e ognuno è in concorrenza con l’altro e tutti lo sono contro tutti (op. cit.). L’autoresponsabilità non si limita, però, solo all’ambito lavorativo: colonizza tutto lo spazio vitale degli individui, compreso lo spazio del loisir, i rapporti interpersonali, quelli tra le generazioni e anche tra i generi. Claudio Cippitelli
Testo rielaborato a partire dal volume In estrema sostanza, scenari servizi e interventi sul consumo di cocaina , a cura di Fabrizia Bagozzi e Claudio Cippitelli, Iacobelli Editore 2008 (pp. 234, euro 15,00)
La droga del senso comune
Oltre tredici milioni di europei adulti hanno provato la cocaina almeno una volta, metà di loro ha un’età compresa tra i 15 e i 34 anni e l’Italia si conferma, insieme a Danimarca, Spagna, Irlandae Gran Bretagna, uno dei paesi dove l’aumento dei consumatori è in crescita costante. Basterebbe una semplice occhiata ai dati contenuti nel Rapporto 2009 dell’Osservatorio europeo sulle droghe, presentato a novembre a Bruxelles, per rendersi conto che la cocaina rappresenta oggi un vero e proprio "fenomeno sociale" e anche di vaste proporzioni. L’exploit di questa sostanza nell’arco degli ultimi vent’anni sembra inoltre configurare una profonda. o comunque rilevante, trasformazione di quella che può essere definita come "sociologia delle droghe", non solo nel senso della diffusione nella società di una determinata sostanza, ma anche dell’analisi del rapporto che questo o quel consumo ha con i valori sociali maggiormente condivisi o dominanti. Alcune recenti pubblicazioni offrono da questo punto di vista preziose indicazioni.
In Cocaina. Consumo, psicopatologia, trattamento , il volume collettivo curato da Paolo Rigliano e Emanuele Bignamini - psichiatra e criminologo clinico ilprimo, psichiatra e psicologo il secondo - e pubblicato da Franco Angeli (pp. 350, euro 28,00) si mette ad esempio in evidenza il passaggio dalla figura dell’eroinomane, che ha caratterizzato simbolicamente nello spazio pubblico il volto del "tossicodipendente" negli anni Settanta e Ottanta, a quella del coicanomane nel corso degli ultimi decenni. «Dalla mitologia dell’eroinomane come ribelle fallito ed emarginato, segno dell’aria mortifera che appesta la città, alla mitologia del cocainomane come eroe del piacere estremo, trionfante oltre ogni limite e regola, ebbro di potenza e di euforia: ecco il percorso di un capovolgimento prodigioso. - si legge nel primo capitolo del libro firmato da Rigliano e intitolato "Come pensare il consumo di cocaina", che precisa - Transizione da una mitologia all’altra: dalla sconfitta al trionfo, dal dolore silenziato al superamento del disagio, dal malessere alle pretese di piacere, dalla schiavitù della droga alla liberazione da ogni vincolo, ansia,inibizione. Quello cui si assiste è un cambiamento dei modelli di rappresentazione di sé - e di sé in rapporto all’altro. Una metamorfosi radicale degli obiettivi di valorizzazione e di autoaffermazione, che sottende il cambiamento dei paradigmi di senso e di valutazione sociale. Cambiamento delle percezioni, certo: ma questo, allo stesso tempo, indica il cambiamento dei contesti socioculturali, matrice primaria per definire e, prima ancora, per immaginare il proprio valore».
La relazione tra le trasformazioni che hanno attraversato la società e l’emergere di "nuove droghe" - un rapporto non certo esaustivo per motivare i consumi individuali che spesso vedono il sovrapporsi di più sostanze nelle abitudini dello stesso soggetto, ma che può offrire indicazioni interessanti, per quanto necessariamente generiche - è perciò riassunto in questo termini dallo stesso Rigliano, che attualmente dirige un Centro Psicosociale nell’ambito del Dipartimento di Salute Mentale di Milano: «Potenza edisponibilità al rischio, pretesa di trionfare infrangendo confini e norme, espansione e sperimentazione di sé in forme nuove, sfida a se stessi e agli altri: non c’è valore e scopo personale e sociale che non venga vittoriosamente esaltato dalla cocaina. Essa realizza il vivere come affermazione a tutti i costi di sé: illude di essere il mezzo più efficiente per realizzarsi come competitore vincente per il potere. Economia di un desiderio che è legge sociale e valore etico, perché utile a vincere nella competizione sociale. C’è dunque una corrispondenza dialettica tra cocaina e società: essa è davvero la droga ideale, l’emblema dei valori dominanti. Essa li celebra, proponendo al soggetto una partita mortale: "Esercitati a diventare potente grazie a me, vai oltre ogni controllo ma mantieni il controllo, sii vincente oltre i confini ma domina questa trasgressione delle norme e dei limiti". In fondo, è tutto il nostro sistema ad mare follemente il rischio e la sperimentazione,l’incremento e il consumo, lo spreco e la potenza vertiginosa. Allora, la cocaina è un’esperienza personale d’allenamento alla socialità di successo».
Allo stesso modo nell’introduzione a Cocaina, psiche e crimine , riflessione sugli "effetti neuro-psico-sociali della cocaina", pubblicato da Paolo De Pasquali, Aurelia Costabile e Anna Maria Casale per Franco Angeli (pp. 136, euro 17,00), Francesco Bruno spiega come «gli effetti stimolanti della cocaina si sono particolarmente adattati ai bisogni di una società sempre più dissociata e sempre più marcata da necessità di performance al massimo livello in ogni settore ed al bisogno di essere accettati e contemporaneamente far valere la propria personalità. Si tratta di una società "paranoide", del "tutto o nulla", dove l’azione della cocaina tende a sbilanciare verso l’esterno, e quindi verso l’apparire, il significato stesso di ogni relazione interpersonale (...). Mentre si chiudono le porte della propria affettività alla relazionecon l’altro, soprattutto se quest’altro ci appare come diverso e lontano dal nostro standard, sull’altro versante si teme che l’altro possa penetrare nel nostro profondo e in qualche modo distruggerlo».
Sociologa e criminologa dell’Università di Bologna, anche Alessia Bertolazzi indica nel volume che ha dedicato alle principali tesi della Sociologia della droga , (pp. 174, euro 17,00), pubblicato sempre da Franco Angeli, una particolare forma di "devianza" nel consumo di cocaina e delle cosidddette "nuove droghe". «Si potrebbe correlare il consumo - scrive Bertolazzi - ad un quadro di "malessere esistenziale", che risente dello svincolamento da legami sociali "forti", della precarietà esperita su più fronti (economico, lavorativo, affettivo), dell’incertezza come condizione di fondo, del mancato raggiungimento del benessere e della realizzazione come individui». Insomma una sorta di «estensione soggettiva per affrontare le esigenze di riuscita, di performance e di autorealizzazioneche la società comunque richiede ai suoi membri».Guido Caldiron









   
 



 
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