Per salvare la moneta unica la Bce e Berlino sono pronti a rivedere il Trattato europeo
 











In privato, Jean-Claude Juncker va dicendo che quella che lui presiede è la Commissione europea "dell’ultima chance". Al suo piano di investimenti il lussemburghese ha dato un orizzonte di tre anni, perché è convinto che questo sia lo spazio rimasto all’euro per dimostrare di poter resistere alla prossima recessione. Non pensa di avere molto tempo di più: neanche ora che i governi più influenti e la stessa Bce, con discrezione, si preparano a rimettere mano al Trattato europeo nel 2015 per raddrizzare l’edificio della moneta unica.
Gli interventi dovrebbero toccare alcune delle innovazioni che i governi europei lanciarono due anni fa per fermare l’implosione del sistema, a partire dall’unione bancaria. La vigilanza sulle banche fu affidata alla Bce, ma ora rischia di entrare in conflitto con le scelte dell’Eurotower sui tassi d’interesse o la liquidità da offrire agli istituti stessi. Di qui l’idea  -  presente anche aBerlino  -  di creare un’autorità europea indipendente votata a sorvegliare gli istituti di credito. Come sempre però, quando i governi riaprono il Trattato che li lega, è facile capire da dove partiranno. Meno chiaro è fino a dove si spingeranno poi nel conferire a Bruxelles nuovi poteri sui bilanci pubblici, sul mercato del lavoro, le liberalizzazioni, la modernizzazione delle burocrazie o i sistemi di welfare.
Il 2015 promette di essere decisivo per capire se l’area euro può rafforzarsi andando avanti e avere un futuro, ma l’anno inizia da un nuovo terremoto con epicentro ad Atene. Syriza si sta avvicinando al potere in Grecia grazie alla promessa di ripudiare buona parte del debito verso gli altri Paesi europei. Non sarà una passeggiata. Nel 2015 Atene deve rimborsare agli investitori privati titoli per 16 miliardi di euro: se voltasse le spalle all’Europa e i creditori le tagliassero i rifornimenti, il prossimo governo greco non avrebbe altra scelta che tornare astampare moneta propria per continuare ad esistere. Sarebbe un segnale per tutti, Italia inclusa, che l’euro non è per sempre e il solo sospetto che la porta d’uscita si è aperta può bastare a far salire i tassi d’interesse verso livelli pericolosi.
Per questo il calendario del prossimo mese ricorda il percorso in un campo minato. Fra nove giorni il consiglio direttivo della Bce si riunisce per discutere se e cosa decidere all’incontro seguente, fissato tre giorni prima delle elezioni greche del 25 gennaio. Le ipotesi sul tavolo sono note: fra i 24 banchieri centrali al vertice dell’Eurotower c’è un’ampia maggioranza per iniettare nuova liquidità nell’economia lanciando un piano di acquisti di titoli di Stato da almeno 500 miliardi di euro. Senza interventi di questa taglia  -  probabilmente da raddoppiare o triplicare nei prossimi anni  -  l’Europa non può emergere dalla deflazione che ora sta aumentando in modo insostenibile il peso dei debiti pubblici eprivati in tutta l’area. Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank, è contrario: per lui mettere sul bilancio della Bce titoli di Stato di Roma, Madrid o Lisbona significa esporre la Germania a perdite se quei Paesi facessero default, perché la Bundesbank è azionista dell’Eurotower per circa il 30% del capitale. Di qui i dilemmi di Draghi e il percorso di guerra che gli si presenta nelle prossime quattro settimane. La pressione per varare gli interventi sui titoli di Stato prima delle elezioni greche è massima, perché l’euro ha bisogno di una nuova rete di sicurezza prima che da Atene arrivino nuove scosse. La banca centrale può sempre decidere di escludere la carta greca dagli acquisti, fino a quando il nuovo governo non deciderà se continuare o meno il programma di assistenza europea.
Anche così, per Draghi resta tutt’altro che facile mettere in minoranza la Bundesbank e obbligare la Germania  -  contro la sua volontà  -  a farsi carico tramite la Bce delrischio su centinaia di miliardi di debito italiano, portoghese o spagnolo. Ancora meno lo è mentre un governo del Sud Europa annuncia il suo rifiuto a ripagare i prestiti ricevuti.
Weidmann ha suggerito che può accettare un compromesso, anticipato su Repubblica il 4 dicembre: ciascuna banca centrale nazionale terrebbe su di sé tutto il rischio di insolvenza sui titoli del proprio Stato. Il rischio sui Btp del Tesoro di Roma comprati dalla Bce sarebbe concentrato tutto sulla Banca d’Italia, quello sui Bonos alla Banca di Spagna, e così via. Anche questa ipotesi però ha controindicazioni, perché può segnare un cambio profondo nella natura delle istituzioni europee. Oggi il 34% del debito italiano (circa 620 miliardi) è in mano a investitori esteri, ma questi ultimi finirebbero per vendere rapidamente alla Bce i loro titoli del Tesoro, la quale a sua volta li trasferirebbe alla sola Banca d’Italia. In poco tempo il rischio del debito italiano finirebbe concentrato tutto entro iconfini del Paese, l’Italia sarebbe finanziariamente separata dal resto d’Europa più di 20 anni fa e l’unione monetaria somiglierebbe sempre di più a un gruppo di Paesi con cambi fissi, ma in attesa di andare ciascuno per la sua strada. Con o senza insolvenza pilotata sul debito, a carico unicamente dei risparmiatori e contribuenti nazionali. Non il modo migliore di iniziare l’anno che, finalmente, dovrebbe dare all’euro un futuro migliore.Federico Fubini,repubblica

 









   
 



 
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