Territorio o Finanza?
 











Conoscenza è un concetto ben diverso da quella della semplice informazione. E’ qualcosa che si deve sudare e costruire, e che può nascere solo radicato nel territorio. Quando si parla di economia e di impresa, questa premessa è fondamentale. Davanti alle sfide che la globalizzazione ha posto di fronte alla vecchia Europa e alla nostra nazione, solo un ritorno al territorio, alla vera conoscenza e alla creazione di prodotti che abbiano una forte identità può fornire soluzioni che abbiano un futuro. Diversi studiosi, tra cui il geografo Sergio Conti, hanno rilevato come tra le maglie di un mondo in continua evoluzione, stiano risultando vincenti le aziende capaci di fornire risposte di questo tipo (in Germania in particolare). Proprio il nostro paese, sede di un patrimonio storico – artistico senza pari e capace in passato di esprimere eccellenze quali il modello Ivrea, avrebbe le potenzialità per uscire dalla palude. Basti pensare che, nonostantetutto, l’Italia mantiene una posizione di rilievo nella classifica dei paesi che depositano più brevetti all’OMPI (organizzazione mondiale della proprietà intellettuale), segno di grande vitalità culturale e imprenditoriale. Nella stessa classifica si sta facendo strada prepotentemente la Cina, ma solo grazie ai cosiddetti “brevetti di servizio”, ottenuti modificando lievemente tecnologie già esistenti.
Nel nostro paese, riprendendo e migliorando il concetto di distretto industriale, sarebbe vitale elaborare strategie che coinvolgano il pubblico e il privato, creando quella densità istituzionale che è il primo passo per la valorizzazione della produttività e dell’identità territoriale. Territorio che può anche coinvolgere segmenti di paesi diversi, fa notare nuovamente nei suoi studi Conti. Invece, stretta tra corruzione, tassazione abnorme e una classe politica inesistente, l’impresa italiana segna sempre di più il passo, spesso mettendoci del suo. La progressiva deregulation incampo economico, che vide il suo apice tra gli anni ’80 e ’90, ha inferto colpi definitivi e quasi mortali. Mancanza di investimenti, delocalizzazioni e abbassamento generalizzato delle tutele sociali per i lavoratori sono stati i corollari, di cui oggi vediamo gli effetti. La beffa finale la fornisce quell’“esercito industriale di riserva” di marxiana memoria, spesso costituito dalle masse di immigrati in fuga dai loro paesi. Entrando in maniera incontrollata nel nostro paese ed immettendosi a prezzi competitivi nel “mercato del lavoro”, contribuiscono involontariamente al decurtamento dei salari, per la gioia del padronato e l’ingenua complicità della cosiddetta sinistra.
Mentre si sono disgregate le barriere in campo economico, è definitivamente esploso un fenomeno destinato a cambiare nel profondo l’economia e l’essenza stessa del nostro essere uomini: il finanzcapitalismo. Descritto mirabilmente da Luciano Gallino, questo termine sottolinea, tra le altre cose, l’influenza e ilpredominio che il mondo della finanza esercita su Stati e persone. Per via dei lauti guadagni che le numerose e complesse operazioni di borsa garantiscono, molte società hanno scelto e scelgono di tuffarvisi a capofitto, favorendo la drammatica deindustrializzazione in cui siamo coinvolti. Nonostante la crisi di cui si stenta a intravedere la fine, ben l’80 % dei titoli azionari mondiali rimane collocato nel settore della finanza puramente speculativa. Multinazionali, hedge funds, fondi pensione (e grandi nomi come quelli di George Soros), con la complicità sempre più evidente del mondo bancario, possono da soli muovere cifre impressionanti e sopravanzare interi Stati. Fermare il meccanismo appare tutt’altro che semplice, ma la scelta tra diversi modelli di sviluppo può essere definita una spartiacque di civiltà. Francesco Carlesi-http://www.lintellettualedissidente.it

 









   
 



 
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