Ecco perché ce l’hanno tutti coi banchieri
 











Nell’aprile del 1991 Amartya K. Sen, l’economista indiano che nel 1998 ha meritato il premio Nobel, tenne una lezione magistrale alla Banca d’Italia. «Vorrei cominciare», disse, «attirando l’attenzione su una singolare contrapposizione, la dissonanza tra la cattiva fama di cui gode la pratica dell’attività finanziaria e il ruolo sociale altamente positivo che essa indubbiamente assolve». La grande crisi del 2008 era ancora lontana. Anche se la storia non si è mai fatta mancare l’esplosione di qualche bolla finanziaria, di tanto in tanto. E nel 1991 era ancora vivo il ricordo del venerdì nero di Wall Street (1987) mentre era in pieno svolgimento il dramma delle savings and loan, le casse di risparmio americane.
Sen fece un elenco impressionante. Citò Polonio che, nell’“Amleto” di Shakespeare, mette in guardia il figlio: «Non indebitarti e non prestar soldi». Ma ancor prima Gesù che scaccia i mercanti dal tempio, i profeti e le regole di condottaebraiche che proibiscono l’interesse sui prestiti, l’Islam che vieta l’usura. Non è stata solo la religione a prendere le distanze. «Anche i pensatori laici», continuò Sen, «non hanno guardato con favore al procacciarsi da vivere con gli interessi». Solone, che governò ad Atene 600 anni prima di Cristo, cancellò la maggior parte dei debiti e proibì, nelle sue leggi, molte forme di credito. Cinque secoli dopo Giulio Cesare lo emulò a Roma.
Aristotele sostenne che l’interesse costituisce un’innaturale e ingiustificata riproduzione del denaro dal denaro. Cicerone ricorda che Catone il censore, interrogato su ciò che pensasse dell’usura, rispose domandando a sua volta all’interlocutore che cosa pensasse dell’omicidio. Dunque la finanza da che mondo è mondo, è soggetta a critiche di ordine morale. Eppure «se il mondo avesse seguito il consiglio di Polonio», secondo Sen, «non avremmo raggiunto l’abbondanza di cui oggi godiamo. Il ruolo creativo della finanza è stato una leva potente ancheper la cultura e per la scienza. Storicamente, non solo la rivoluzione industriale, ma anche il Rinascimento sarebbero stati forse impossibili senza la mano soccorrevole della finanza».
E allora perché un’attività tanto utile è giudicata così dubbia sotto il profilo etico? Riletta oggi, la domanda sembra banale. La crisi finanziaria del 2007-08, che è ancora in atto e soprattutto ha prodotto, produce e produrrà effetti deleteri sull’economia reale, ha scoperchiato un mondo talmente avido, corrotto e spregiudicato che il giudizio morale erompe di getto dal fondo dell’anima di chiunque. Condanna, ripulsa, rabbia, sdegno, vendetta sono i sentimenti che prevalgono. E che ancora oggi trasudano dalle avvincenti ricostruzioni di questo drammatico periodo dell’economia mondiale. Tre di esse sono da poco arrivate in libreria. Il sociologo Luciano Gallino ha scritto per Einaudi “Il colpo di Stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa”. Del giornalista Federico Rampini èuscito per Mondadori “Banchieri. Storie dal nuovo banditismo globale”. E un altro giornalista, Luca Ciarrocca, ha dato alle stampe per Chiarelettere “I padroni del mondo”. Già i titoli danno un’idea precisa. Non si fanno sconti.
Del resto, che altro potrebbero aspettarsi coloro che per arricchire se stessi e i loro azionisti hanno messo in ginocchio l’economia mondiale, hanno costretto a chiudere migliaia di imprese, hanno ridotto in miseria milioni di persone? Le pagine scritte da Gallino sul ruolo dello shadow banking (il sistema finanziario ombra), quelle di Rampini sulla manipolazione del Libor (il tasso d’interesse di riferimento dell’attività bancaria) o quelle di Ciarrocca sulla giostra dei derivati fanno inorridire.
Se poi nel bel mezzo della tempesta perfetta del sistema economico mondiale crolla il più colossale schema di Ponzi concepito nella storia dell’umanità, la tempesta diventa più che perfetta: Bernard Madoff ha bruciato 50 miliardi di dollari dei suoi clienti,prima abituati a rendimenti miracolosi grazie al costante afflusso di nuovi investitori, poi rimasti con un pugno di mosche (è questo il Ponzi’s scheme). Eppure ancora oggi un leader politico di primo piano come il sindaco di Londra Boris Johnson, candidato alla guida del partito conservatore dopo David Cameron, non esita ad affermare che «l’avidità è un valore essenziale dell’attività economica. L’ineguaglianza serve a scatenare lo spirito dell’invidia che promuove la crescita di un Paese».
Ma in fondo gli avidi non hanno nulla da temere: secondo l’Eba, nel 2012 in Europa 2.714 banchieri hanno guadagnato più di un milione di euro (in media un milione e 951 mila euro). E non hanno provato vergogna, a quanto risulta.
Rimane da capire se, per definizione, chi opera in banca è peggiore degli altri. «Non credo», sostiene per esempio il canadese Joel Bakan, docente alla University of British Columbia e autore di “The Corporation”, «che la cultura del settore bancario sia diversa daquella di altri settori, come per esempio il farmaceutico o l’alimentare. Le grandi corporation operano senza coscienza per quanto riguarda gli aspetti sociali dei loro comportamenti. Se fossero esseri umani diremmo che sono psicopatici in quanto hanno come punto di riferimento un comportamento antisociale. Il loro comportamento amorale è autodistruttivo e alla fin fine sono gli investitori che vengono fottuti».
Lo conferma Ingo Walters, docente di finanza ed etica alla Stern School of Economics della New York University: «Non c’è motivo per credere che chi lavora nel settore bancario sia più o meno responsabile di chi sceglie altri settori; ma lavorare in quell’industria significa maneggiare il denaro degli altri e ciò implica un rapporto fiduciario eccezionale. Il potenziale di guadagno è infinitamente più alto che non nel campo dell’ingegneria, della medicina, della scienza e della tecnologia. E il guadagno viene dalla redistribuzione della ricchezza esistente non dalla creazionedi nuova ricchezza, in mercati ipercompetitivi che portano alla tentazione di debordare, di eccedere, di uscire dai confini delle regole bancarie».
Dunque, banchieri e bancari sono manager e funzionari come tutti gli altri ma trattano una merce particolare, il denaro, che induce più facilmente in tentazione. Non solo. Le banche esercitano funzioni essenziali per il buon funzionamento dell’economia: il sistema dei pagamenti, la gestione dei risparmi, la concessione di prestiti. Proprio per questo, nei momenti più drammatici della crisi, le autorità politiche ed economiche si sono opposte al fallimento dei grandi gruppi finanziari. Sono too big to fail, troppo grossi per fallire, perché le ripercussioni del fallimento (fuga dai depositi, crollo della fiducia nelle monete, fallimenti a catena per via delle interconnessioni) sarebbero ancor più catastrofiche di quelle derivanti da un salvataggio pubblico (che in molti casi c’è stato), e cioè aumento del debito pubblico, più imposte,meno spesa pubblica, meno crescita, più disoccupazione. In sintesi, meno benessere.
Pertanto il settore richiede regole più stringenti e controlli più severi di qualsiasi altro business. Proprio per evitare che la “tentazione” abbia il sopravvento e che un’infrastruttura determinante per il corretto funzionamento dell’economia vada in tilt. Philip Augar, un ex broker inglese che ha scritto “The Greed Merchants”, “The Death of Gentlemanly Capitalism” e “Chasing Alpha”, su questo è drastico: «Attualmente non esiste un modello finanziario che permetta ai banchieri di aderire a certi valori etici; quello che importa è solo il valore azionario a breve termine».
Anche l’Italia, prima della crisi, ha vissuto una lunga stagione di idolatria del Roe (return on equity), il cui profeta peraltro era il banchiere più vicino alla sinistra: Alessandro Profumo. Ma l’“orizzonte breve” (shortermismo) dei manager bancari potrebbe persino non spaventare se a vigilare sulla loro attività ci fosse unimpenetrabile corpo di guardia, impegnato a far rispettare poche, efficaci e temibili regole. Proprio quello che è venuto meno prima della crisi. E che non è stato ricostruito neanche oggi, a sei anni di distanza. Come ha detto più volte il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, il pendolo oscilla tra deregolamentazione e ri-regolamentazione. «I fallimenti dell’“economia regolamentata”, il ritmo del progresso tecnologico e la rapida espansione del commercio internazionale dopo la fine della guerra fredda», ha detto Visco, «alimentarono un lungo processo di deregolamentazione finanziaria, interrotto soltanto dalla crisi scoppiata nel 2007. Questa ha a sua volta innescato una tendenza alla ri-regolamentazione, o a una migliore regolamentazione, tuttora in atto».
Detto brutalmente, quando le cose andavano bene, il reddito cresceva e qualsiasi squilibrio sembrava sostenibile, la lobby della finanza, attribuendosi almeno una parte del merito di questo successo, ha imposto la suavisione del mondo. In particolare, che l’autoregolamentazione è la migliore di tutte le regolamentazioni perché “nessuno meglio di noi sa come gestire i rischi” e “nessuno più di noi ha interesse a far sì che tutto proceda senza incidenti”. Questa frottola, condita con richiami colti ai benefici effetti della “mano invisibile”, all’azione frenante esercitata dalle autorità di vigilanza e alle infinite possibilità di sviluppo legate all’innovazione finanziaria, ha fatto breccia (anche in gran parte della sinistra liberale). E si è affermata. Il regolatore è stato “catturato”, l’innovazione ha dato luogo a eccessi e truffe, i banchieri (e i regolatori) hanno perso il controllo del mostro che hanno creato, il sistema alla fine è crollato.
Tanti hanno pianto. Come pianse Sybille de Cabris (Amedeo Feniello, “Dalle lacrime di Sybille. Storia degli uomini che inventarono la banca”, Laterza), una nobile nella Provenza del 1300 che, rimasta vedova, fu costretta a vendere una proprietà nelRegno di Sicilia. Per farlo si affidò a una delle tante societates mercatorum che si stavano affermando all’epoca e che godevano della fiducia di tutti. Ma i banchieri Buonaccorsi fallirono, sparirono. E il patrimonio di Sybille andò in fumo. Fu allora che il pendolo cominciò a oscillare.Orazio Carabini,l’espresso ha collaborato Andrea Visconti










   
 



 
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