Ma quale stabilità?
 











Come spesso accade, la legge di stabilità – la vecchia finanziaria – in Italia diventa una gigantesca lotteria in cui il governo inizia le danze e poi il Parlamento presenta centinaia di emendamenti. Intanto il governo si accorge di diverse cose che non vanno, le cambia in corso d’opera, il Parlamento ripropone altri emendamenti e alla fine si mette la fiducia per evitare l’assalto alla diligenza.
Ovviamente, che il Parlamento presenti le sue idee è sinonimo di democrazia, di sana dialettica istituzionale. Certo, sarebbe meglio se i partiti presentassero osservazioni organiche e di indirizzo, invece che lasciare ai singoli peones il compito di lottare per le varie mance territoriali. Non è così, ahime. Anzi, siamo al paradosso che quello che è a tutti gli effetti il portavoce economico del Pd nel governo – il vice-ministro Fassina – si lamenti pubblicamente delle politiche economiche salvo poi tacere e accettare le decisioni di PalazzoChigi.
Ci sarebbe da domandarsi allora che funzione hanno i partiti nel Parlamento e pure nella costituzione del governo. La risposta, almeno per quel che riguarda la politica economica, sembra chiara: nulla. Le decisioni, in fondo, vengono prese a Bruxelles. L’Italia ha accettato i trattati europei, e quindi il niet alla legge di stabilità viene dai palazzi europei, e non da quelli della politica romana. Lo abbiamo visto in questi i giorni, in effetti: la legge di stabilità – a causa della crescita che non torna mai – non è in regola con i vincoli della Ue. Nel periodo transitorio verso il fiscal compact – inattuabile al momento con l’economia in recessione – i paesi europei con i conti in disordine devono almeno registrare una riduzione del deficit strutturale pari allo 0.7% del Pil. A via XX Settembre avevano fatto i conti male, e la riduzione si fermerebbe allo 0.1%. Con una conseguenza gravissima, e cioè l’impossibilità di utilizzare la clausola sugli investimenti: i paesivirtuosi possono escludere gli investimenti pubblici dal computo del deficit, in maniera da rilanciare la spesa pubblica infrastrutturale. Brutto colpo per Letta, che sperava in un po’ di spazio di manovra per ridare ossigeno all’economia.
Insomma, come si dice spesso, l’Italia sembra un paese commissariato dall’Europa, un’Europa ossessionata solo dai conti pubblici ma senza una visione complessiva dell’economia. Tutto vero, ma solo parzialmente vero. Troppo facile, infatti, dare tutte le colpe all’Europa. Che ne ha, e lo abbiamo detto millanta volte. L’Europa ha trattati stupidi, e impone criteri assurdi, certo. Ma non indica – quantomeno, non sempre – le cose che vanno fatte per raggiungere questi obiettivi. Per quello servirebbero idee chiare da parte dei partiti: come ridistribuire il carico fiscale, quali tasse alzare, quali abbassare? Che ordine di priorità si dà alle spese, è più importante la Tav o il trasporto locale, sono più urgenti gli f35 o la manutenzione delterritorio? Per quanto riguarda la prima domanda, la politica fiscale, il governo sembra incapace, sempre impaurito di scontentare alcuni – ma è inevitabile – per favorire altri. Si dirà, con il governo di coalizione è molto più difficile perché troppe parti sociali sono rappresentate. Vero, ma questo dovrebbe portarci a ripensare la natura di questo governo. Vero pure, per altro, che i passati governi di centrosinistra, non si erano distinti per iniziative più coraggiose, perché sempre troppo preoccupati di non scoprirsi a destra. Invece, per quanto concerne la spesa, le priorità sembrano più chiare: grandi opere, grandi interessi, tanta attenzione al grande business, poca attenzione ai bisogni della gente – che per altro, con un minimo di lungimiranza, porterebbero pure ad un miglioramento dell’attività economica.
Insomma, l’Italia rischia di essere bloccata tra incudine e martello. Il martello europeo, che tiene sotto scacco i conti pubblici e impone l’austerity. E l’incudine diuna politica ignava e complice, senza un minimo di idee per rilanciare il Paese. Nicola Melloni









   
 



 
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