Cairo, resta solo l’obitorio
 











Cairo è una città blindata. I carri armati gialli, piazzati davanti a tutte le moschee del centro e in ogni piazza dove potrebbe materializzarsi una manifestazione, obbligano il traffico a improbabili contorsioni. I rotoli di filo spinato appoggiati qui e là come fossero fuscelli trascinati dal vento del deserto avvertono i cittadini che i militari hanno il controllo della vita urbana. Il museo del Cairo e le Piramidi di Giza sono ufficialmente chiuse almeno fino a settimana prossima. Le università sono deserte. Piazza Tahrir è completamente recintata, con ragazzotti assoldati dai militari per controllare i documenti di chi entra ed esce.
L’epoca della Woodstock islamica con i suoi sit-in permanenti in cui assaporare l’ebbrezza di una libertà per decenni vista solo in televisione è finita. Questo è il tempo del ritorno all’ordine militare.
Il prezzo da pagare per una stabilità che riporti nel Paese dei faraoni turisti e investimenti economici,dicono. Così mentre il palazzo del quartiere generale del partito di Mubarak giace ancora annerito dalle fiamme come memento del coraggio egiziano a Rabaa, il fulcro delle proteste degli islamisti e il luogo principe del massacro da loro subito, i lavori di ricostruzione sono già in corso. I segni della morte devono scomparire.
A vederlo, però, il quartiere mette ancora paura: intere strade divelte dai Fratelli che utilizzavano le pietre come armi. Alberi e palazzi bruciati. Andato tra le fiamme anche il distributore di benzina accanto al quale si trova la palazzina popolare di epoca nasseriana in cui l’altro giorno stato arrestato Mohammed Badie, il leader spirituale dei Fratelli musulmani. Poco più avanti il palazzo presidenziale è stato circondato da doppie mura di cemento e container, sorvegliato giorno e notte da esercito e polizia.
Muoversi in macchina in città vuol dire non potere fissare un appuntamento. La lunghezza del percorso dipende dal numero di carri armatiincontrati lungo la strada; dai percorsi chiusi; dal coprifuoco alla circolazione nelle diverse ore del giorno.
Per i pochi stranieri presenti nella capitale rientrare a casa dopo le sei di sera vuol dire avventurarsi in improbabili autostop con sconosciuti, considerata l’assenza di taxi per le strade a partire da un’ora e mezza prima del coprifuoco. Già alle cinque del pomeriggio il cameriere del caffè all’aperto di fronte al palazzo presidenziale di Etthadeya, il palazzo presidenziale, segnala che sarebbe ora di rientrare alle signore velate impegnate in fitte conversazioni. La cena viene servita solo fino alle 5 del pomeriggio.
Poi,a poco a poco, si smorza il frastuono dei clacson: e quando la palla arancione del sole si getta nel Nilo i neon abbaglianti di ristoranti e mercanti inesorabilmente si spengono. La conversazione lascia le strade e le piazze e si sposta sugli schermi: quelli della televisione con i canali di Stato ad incitare i cittadini alla lotta contro ilterrorismo e quelli di Al Jazeera che mostra le manifestazioni sporadiche ancora organizzate nell’Alto Egitto. dove i militari non hanno bisogno del coprifuoco.
Poi ci sono i monitor di computer e smart phone dove i cittadini discutono senza tregua degli eventi recenti. Su Internet scorrono le conversazioni degli islamisti in fuga e le azzuffate tra liberali e laici sul comportamento dell’esercito. E’ stato Twitter a far sapere a tutti all’alba di martedì che sì, il capo supremo dei Fratelli musulmani, Mohammed Badie, era stato arrestato.
Unico luogo in cui la vita sembra continuare quasi come prima è Zamalek, l’isola tra le acque del Nilo in cui abitano le classe agiate e i ristoranti hanno copiato il design europeo. Qui il coprifuoco è un optional. Superati i due ponti che la collegano a piazza Tahrir, le luci continuano a brillare nonostante, o forse a causa, degli uomini in divisa. Il dialogo è però a bassa voce. Nessuno si espone troppo. Tutti in attesa di capire quale è ilnuovo sentiero che imboccherà questa lenta rivoluzione prima di decidere da che parte e con che intensità schierarsi.
Tutto un altro clima quello che si respira a pochi chilometri a nord dell’università islamica di al-Ahzar, proprio in mezzo alle palazzine popolari di stampo sovietico volute dal governo socialista di Nasser, dove sorge l’unico obitorio del Cairo. E’ qui che, di solito, i cadaveri prodotti dei tanti incidenti stradali vengono portati. Ed è qui che adesso le vittime degli scontri tra polizia militare e fratellanza devono essere identificate dalla polizia forense e reclamate dalle famiglie. Quasi mille cadaveri nel giro di un mese. Un centinaio ancora privi di identità.
Ben prima di arrivare all’ingresso, lunghi camion frigorifero posizionati sui lati di una stradina stretta e lunga indicano la direzione. Poi, inatteso, l’odore della morte ha il sopravvento sugli altri sensi. Dolciastro e nauseabondo. Avanzando a piedi la sua intensità aumenta con il numero dellemosche che si intrufolano nei vestiti.
Gruppetti di uomini dalla pelle scura, alcuni con maschere chirurgiche di cotone sul volto, parlottano tra loro e osservano i nuovi arrivati fuori dal cancello di metallo dell’ingresso. Sono i parenti dei defunti impegnati in un’infinita attesa burocratica.
Varcata la soglia, il cortile è miserabile, ricoperto di rifiuti e sarcofaghi di compensato. Una grata in ferro turchese - identica a quelle quelle che proteggono dai ladri i negozi alimentari dei paesi del sud del mondo – separa alcune donne velate da altre che scartabellano fogli sporchi con le liste dei nomi dei morti.
Accanto una donna anziana, completamente vestita di nero, siede immobile. E’ la responsabile del lavaggio dei cadaveri femminili secondo la tradizione islamica. Ha appena finito di lavare il giovane corpo immobile di Isra el-Beltagi, la figlia teenager di uno dei leader della Fratellanza musulmana.
Alla sua sinistra un lungo corridoio fetido conduce alla sala dellavaggio: un piano di marmo lurido attorniato da cumuli di immondizia. Non si può sostare: la morte è, giustamente, un fatto privato.
Stranieri e curiosi non sono i benvenuti. Vedere i cadaveri è considerato dagli abitanti del quartiere una profanazione. Un giovane infermiere dal camice verde e zoccoli bianchi però mi si avvicina: bastano pochi spiccioli perché lui spieghi che i camion frigoriferi sono aperti e che se riesco a non farmi linciare dai teppisti a guardia delle salme posso anche dare una sbirciatina.
Accanto ai camion, un ragazzo in t-shirt rossa corre su e giù lungo la strada che fiancheggia il cancello dell’obitorio. Ha perso il fratello, un disk jokey, nel quartiere meridionale di Mohandesin. Era lì di passaggio ad osservare le proteste dei Fratelli, spiega lui, quando un militare lo ha centrato al collo. Adesso però non consentono alla famiglia di recuperarne il cadavere a meno che non firmi un documento che indichi che la morte è avvenuta lo scorso mercoledì aNhada, l’accampamento meridionale degli islamisti. In questo caso la famiglia non avrà diritto a nessuna compensazione da parte dello sStato come risarcimento per la sua morte: la partecipazione al sit-in di Nhada oltre il preavviso di sgombero di 48 ore era illegale. Nell’altro caso invece, le spetterebbero circa cinquemila euro. In questo paese sull’orlo del collasso economico anche i cadaveri sono merce preziosa. Federica Bianchi -l’espresso









   
 



 
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