Il diavolo si nasconde nei dettagli. Così, per capire se il papa venuto da lontano è davvero riuscito a rivoluzionare la Chiesa e ad addomesticare la litigiosa curia romana, è necessario andare oltre la rappresentazione agiografica con cui in troppi descrivono il pontificato. Non fermarsi all’apparenza, ma assistere (non visti) alle riunioni di cardinali che si insultano per la gestione del potere, intrufolarsi allo Ior per leggere le lettere che il neo presidente Jean-Baptiste De Franssu ha mandato ai suoi nemici, esaminare documenti riservati che svelano la nuova guerra per il controllo di asset e ospedali strategici come l’Idi di Roma. Scavando appena un po’ sotto la superficie, si scopre che Bergoglio è un uomo determinato, carismatico ma ancora troppo solo, circondato da pochissimi amici e da una gerarchia ecclesiastica balcanizzata. Dietro l’enorme autorità morale che ha conquistato tra cattolici e laici e l’abilità comunicativa con cui harilanciato l’immagine della Chiesa (dalle concessioni “liberal” su omosessuali, divorziati e preti sposati, all’annuncio dell’apertura di una barberia per clochard in piazza San Pietro, fino alle visite a sorpresa nelle baraccopoli), all’ombra delle mura leonine l’atmosfera non è cambiata: come ai tempi di Ratzinger, trionfa il “bellum omnium contra omnes” descritto da Thomas Hobbes. Bergoglio ha ribaltato la curia con uno spoil system capillare, ma non ha ancora trovato l’antidoto ad antichi veleni, mentre nuove rivalità sorgono vigorose, in primis per il potere e per il controllo delle finanze vaticane. «La rivoluzione di Francesco», ragionano i ben informati, «può avere successo solo se i contendenti depongono subito le armi. In caso contrario, le riforme rischiano di fallire. Per la Chiesa sarebbe una disgrazia». IL RANGER E LE VECCHIE VOLPI Se ai tempi di Benedetto XVI i conflitti si sono scatenati intorno alle mosse dell’ex segretario di Stato Tarcisio Bertone e dei suoifedelissimi, oggi al centro di critiche feroci c’è il cardinale George Pell, l’ex vescovo di Melbourne che Francesco ha voluto a capo della Segreteria dell’Economia, il super-ministero nato per controllare e razionalizzare il tesoro vaticano. Molto più di Pietro Parolin, sostituto di Bertone, è l’australiano, figlio di due baristi ed ex rugbista, il vero uomo forte sotto il Cupolone. Dopo gli scandali finanziari e le inchieste giudiziarie a catena, il papa voleva che “il ranger” mettesse pace tra le porpore e facesse trasparenza su conti ed enti. Finora, però, non è andata come sperava. Basta leggere il verbale dello scorso 12 settembre della Commissione cardinalizia dell’Apsa (l’organismo che amministra il patrimonio della Santa Sede) per capire che le mosse di Pell e i suoi uomini hanno spaccato la curia come e peggio dell’epoca di Bertone. Lo zar della Segreteria è inviso non solo alle vecchie volpi che temono di perdere quel che resta della loro influenza (come i reduci diBertone e gli “epurati” Mauro Piacenza, Raymond Burke e Giuseppe Sciacca, cardinali fatti fuori per volontà diretta di Francesco), ma è detestato anche dagli emergenti vicinissimi a Bergoglio. «C’è uno che fa tutto e gli altri no», dice a verbale il neo camerlengo Jean Luis Tauran, discutendo con i monsignori Parolin, Domenico Calcagno, Giovanni Battista Re, Giuseppe Versaldi, Attilio Nicora e altri membri dell’Apsa. «Siamo in una fase di sovietizzazione, è molto preoccupante». «A mio parere è pericoloso che la Segreteria prenda in mano tutto», concorda Re: «Così l’Apsa non ha più senso». Tauran e gli altri “congiurati”, quel 12 settembre, sono furiosi. Pell da settimane sta forzando la mano per trasferire alla sua Segreteria tutti i poteri dell’organismo. Francesco aveva già deciso, nel luglio 2014, di girare al dicastero del “ranger” la sezione ordinaria dell’Apsa (quella che si occupa della gestione degli immobili), ma Pell – il 5 settembre 2014 – ha “ordinato” via mail alcardinale Calcagno, presidente dell’istituto, «di procedere senza alcun ritardo» alla «transizione delle attività della sezione straordinaria a quelle di una tesoreria», intimando al capo dell’Apsa «di astenersi dal prendere altre iniziative». Il monsignore, riletta la mail, decide di contrattaccare. Ottiene udienza dal papa, per capire se il blitz dell’australiano fosse concordato con lui. Francesco cade dalle nuvole, e decide di firmare un “rescritto” che blocca il trasloco delle proprietà di migliaia di appartamenti e case sotto la Segreteria. I cardinali si dicono soddisfatti, ma restano preoccupati: nel verbale il segretario di Stato Parolin afferma che «gli statuti che si stanno elaborando vanno nel senso di un trasferimento anche della proprietà». Pell non si è ancora arreso. «Sono stupito che il cardinale Pell tratti di questi argomenti tramite email», interviene stizzito Nicora: «Ci si aspetterebbe che il prefetto di un organismo di tale livello si serva di carta intestatacon protocollo e una firma scritta in modo che resti agli atti!». «PASTICCIO VATICANO» Ma è soprattutto il rifiuto di Pell di salvare l’Idi, il nosocomio dermatologico più grande d’Europa, a scatenare la furia della gerarchia contro l’australiano e i suoi fedelissimi, cioè il suo segretario Danny Casey, il presidente dello Ior de Franssu e Joseph Zahra, il finanziere maltese membro del Consiglio dell’Economia che ha ideato le nuove strategie per gestire gli affari e l’asset management dello Ior. L’ospedale della Congregazione dei Figli dell’Immacolata Concezione, gravato da un debito di 700 milioni di euro a causa delle ruberie di padre Francesco Decaminada ( svelate da “l’Espresso” nel 2011 e poi perseguite dalla magistratura) aveva infatti ottenuto dall’ex presidente dell’Istituto per le Opere Religiose Ernst von Freyberg la promessa di un prestito da 50 milioni di euro. Promessa che si formalizza con un decreto, portato lo scorso giugno dal cardinale Giuseppe Versaldi -delegato pontificio dell’Idi - al ministero dello Sviluppo economico: è solo grazie all’impegno scritto dello Ior che il governo italiano, due anni fa, concesse il concordato preventivo. Rinnovata la governance della banca vaticana, però, la musica cambia. De Franssu, imbeccato da Pell e Zahra, decide che i soldi non li dà. Manda persino una lettera a Versaldi, uno degli ultimi bertoniani rimasti in sella, in cui spiega che secondo lui i 50 milioni «non sarebbero spesi secondo la prudenza del buon padre di famiglia». Leggendo la missiva a Versaldi quasi viene un infarto. Non solo per l’offesa personale, ma anche perché l’ospedale – senza il prestito Ior, garantito a sua volta dall’altro ospedale vaticano, il Bambin Gesù, che allo Ior ha un conto da centinaia di milioni – rischia di andare perduto. Con conseguenze catastrofiche per i 1500 dipendenti e le loro famiglie. Anche Francesco vuole salvare l’Idi, ma il papa non riesce subito a imporsi: per Pell l’operazione non s’ha dafare, non solo perché non si fida di Versaldi, ma perché teme - spiega Parolin ai colleghi - «che la Santa Sede perderà questi 50 milioni». Alla fine i “congiurati”, d’accordo con il pontefice, mettono in campo una strategia per aggirare l’ostacolo: il denaro non verrà messo dallo Ior, ma dall’Apsa, fuori dalla sfera d’influenza del ranger. Se fallisse l’Idi, infatti, «i danni di immagine, di rapporti politici, diplomatici, giuridici, il problema dei dipendenti, sarebbero notevoli», ragiona durante l’incontro il cardinale Agostino Vallini. Il vicario della diocesi di Roma aggiunge di essere dubbioso per la presenza di «un soggetto terzo come il Bambin Gesù, che può far leggere un’operazione che sembra chiara, lineare e urgente come un’operazione poco chiara». «Già. Per colpa di Pell siamo di fronte all’ennesimo pasticcio vaticano», chiosa Nicora a fine riunione. Il gruppetto di eminenze, in verità assai diverse per profilo e carattere, è riuscito a salvare l’ospedale. L’Idi resteràuna proprietà della Congregazione (che dovrà restituire il denaro all’Apsa con rate annuali) ma sarà gestito dalla nuova Fondazione “Luigi Maria Monti”: l’acquisto verrà formalizzato entro marzo dai commissari di governo. Nel cda della fondazione Monti la Congregazione conterà poco o nulla: presidente sarà Versaldi, suo vice e braccio operativo il commercialista Gianluca Piredda, che dovrà mettere ordine nei conti aggravati da un nuovo buco da 80 milioni creato nei due anni di commissariamento. Ci sarà spazio nel cda anche per Franco Dalla Sega e per il presidente uscente del Bambin Gesù, Giuseppe Profiti. Il Vaticano gestirà l’Idi da solo: il gruppo Sansavini, che alcune cronache hanno messo in cordata con la Congregazione, comprerà infatti l’altro nosocomio dei frati, il San Carlo di Nancy, con un investimento vicino ai 25 milioni. Dopo la cessione del ramo d’azienda, ognuno andrà per la sua strada. LA SANTA PROPAGANDA Se Pell ha perso la battaglia, la sua lobby maltese restafortissima. In questi giorni Pell, Casey e Zahra hanno definito i nuovi statuti della Segreteria e del Consiglio dell’Economia, che potrebbero prevedere uno svuotamento dell’Apsa e il ridimensionamento di altri organismi finanziariamente autonomi come la Segreteria di Stato e il Governatorato. Per centrare l’obiettivo, da mesi Pell sta cercando di accreditarsi (col papa e l’opinione pubblica) come campione della trasparenza. «Abbiamo scoperto che alcune centinaia di milioni di euro erano nascosti in particolari conti settoriali e non apparivano nei fogli di bilancio», ha annunciato lo scorso dicembre al “Catholic Herald” provocando un terremoto in mezzo mondo. La somma è lievitata di settimana in settimana, e in un’intervista al “Corriere” di qualche giorno fa ha toccato quota 1,4 miliardi di euro. «Ci saranno più soldi per i poveri e chi soffre!», ha specificato. Raggiunto da “l’Espresso” il portavoce della Santa Sede padre Lombardi ha detto di non sapere di che denaro parli ilcardinale, ma ha ribadito che «in Vaticano non esiste alcun fondo illegale». Il fatto è che Pell non ha «scoperto» nulla di nuovo: ma ha usato («per farsi pubbblicità», dicono i nemici) le tabelle che elencano tutti gli asset extrabilancio da sempre conosciuti dal papa e dal consiglio dei 15 cardinali che approva le scritture contabili. “L’Espresso” le ha viste: si va dal fondo-rischi del Bambin Gesù (nel 2013 era di 337 milioni) alla Diocesi di Roma (altri 69,9 milioni, tutti contributi previsti dal canone 1271), da quelli della Fabbrica di San Pietro (51,9 milioni) all’immobiliare della “Casa sollievo della Sofferenza” (83,2 milioni). Cifre a cui bisogna sommare il Fondo pensioni (433 milioni) e decine di donazioni (come l’obolo di San Pietro) destinate ad altre diocesi. Attivi che Pell vuole mettere da quest’anno nel bilancio della Santa Sede (e fa bene) ma che difficilmente potranno essere usati per opere di beneficenza: carte alla mano, escluse le spese di gestione, gli utilifinora extrabilancio sono vicini ai 150 milioni, che a fine 2015 serviranno probabilmente a coprire i buchi di Ior e Governatorato. Le sparate di Pell sul «tesoro nascosto» (ridicolizzate anche dalla rivista dei gesuiti americani “America Magazine”) vengono viste dai suoi avversari come tentativi per mettere le sue mani su tutto il malloppo. Non a caso, oltre alla santa alleanza guidata da Parolin, Versaldi e Calcagno, anche il “papa rosso” Fernando Filoni, capo di Propaganda Fide e del suo sterminato patrimonio immobiliare, sta tentando di opporsi in ogni modo alle ambizioni del nuovo dominus. A fianco a lui nella battaglia ci sono anche Francesco Coccopalmerio (dal 2007 capo del dicastero del Pontificio consiglio per i testi legislativi: lui e il suo segretario Juan Ignacio Arrieta Ochoa, potente esponente dell’Opus Dei vicinissimo a Francesco, hanno tentato sino alla fine di bloccare l’approvazione dei nuovi statuti), lo spagnolo Lucio Vallejo Balda e il sudamericano SantosAbril, messo dal papa a capo della commissione cardinalizia di vigilanza sullo Ior. Pell di lui si fida pochissimo, e per controllarlo da vicino ha spostato di recente il suo ufficio al Torrione Niccolò V, arredando la stanza che fu di Ettore Gotti Tedeschi con i pezzi più belli che ha trovato in Vaticano: due arazzi, qualche legno pregiato, un’enorme scrivania. «George è fatto così, ama le cose belle, è tutta invidia», lo difende chi lo conosce bene. Chissà se papa Francesco, invece, s’è pentito della scelta fatta. Emiliano Fittipaldi,l’espresso
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