Il quartiere palestinese di Jabal al-Mukabber si trova su una collinetta ad un paio di chilometri dalla Spianata delle Moschee. La cupola dorata del Duomo della Roccia, visibile ad occhio nudo, riflette i raggi del debole sole di novembre. È da qui che i cugini Odey e Ghassan Abu Jamal sono partiti, armati di coltelli e una pistola, per uccidere i 4 rabbini sefarditi in una sinagoga di Gerusalemme. La polizia israeliana ha messo sotto assedio il quartiere. Le bandiere rosse del Fronte Popolare svolazzano ovunque, soprattutto in prossimità della tenda allestita per rendere onore ai due “martiri” uccisi dopo l’intervento della polizia. Dal 24 aprile a oggi, i fatti salienti della Terza Intifada Gerusalemme brucia, e l’attentato alla sinagoga è solo l’ultimo di una serie di violenze scaturite dopo il collasso dei negoziati di pace nell’aprile scorso. I giovani palestinesi della città sono in fermento e i media parlano di Terza Intifada. BahaaAllyan ha 24 anni ed è uno dei creatori del centro per giovani di Jabal al-Mukabber. Se gli si chiede delle recenti violenze e dei cugini Abu Jamal, risponde che li conosceva bene: «Avevano una famiglia e un lavoro, non condivido quello che hanno fatto, ma lo capisco. La gente, soprattutto i giovani, sono esasperati dalla situazione d’ingiustizia che i palestinesi vivono a Gerusalemme, le tensioni sulla Spianata sono state solo un pretesto». Bahaa spiega che la polizia israeliana entra spesso nel quartiere e si scontra con i giovani. «Io», chiarisce, «la penso come Gandhi. Ognuno deve avere un ruolo nella società. Gli artisti hanno un ruolo, i ragazzi che scendono in strada per tirare pietre ai soldati, un altro; il mio compito è di gestire il centro, questo è il mio modo per resistere all’occupazione israeliana». Quello che appare chiaro a molti è che le recenti violenze non sembrano avere un mandante preciso come durante la Seconda Intifada. I metodi degli attacchi sonocompletamente differenti dalle due precedenti insurrezioni palestinesi e troppo sporadiche, sinora, per definirle una rivolta popolare di massa. La nuova ondata di attacchi si concretizza in azioni repentine e non coordinate: come investire pedoni nel centro di Gerusalemme o accoltellare soldati alla fermata dell’autobus: segni di un’esasperazione che fa trasformare in un’arma tutto ciò che si ha a portata di mano: automobili, pietre, coltelli. A scendere in strada, a manifestare e a scontrarsi con l’esercito o la polizia israeliana sono i giovanissimi. Al solito: possono avere ispiratori, ma la rivolta è dei ventenni. I protagonisti delle precedenti sollevazioni sono in galera da anni o sono stati uccisi e i rimanenti sono stati “istituzionalizzati” dall’Autorità palestinese, che, grazie ad un accordo con Israele, li ha assunti come dipendenti pubblici. A spingere per «riconsiderare la possibilità dell’utilizzo della lotta armata» ci ha pensato recentemente Marwan Barghouti, leaderdel braccio armato di Fatah, che sta scontando cinque ergastoli in un carcere israeliano. Barghouti è uno dei politici più popolari, i sondaggi lo vedrebbero testa a testa con il presidente Abu Mazen in caso di elezioni. Il casus belli delle recenti violenze è ancora una volta la Spianata delle Moschee, luogo santo per cristiani, ebrei e musulmani. Attivisti della destra nazionalista, premono per consentire ai fedeli di pregare nel luogo che gli ebrei chiamano il “Monte del Tempio”. Anche se le autorità religiose israeliane sono state chiare a riguardo: pregare sulla Spianata è proibito agli ebrei. I nazionalisti sembrano infischiarsene, supportati dai partiti di destra guidati da Naftali Bennett e dal ministro degli Esteri Avigdor Lieberman. «Io sono prima gerosolimitano e poi palestinese, Gerusalemme è la città di chi ci vive, musulmani, cristiani ed ebrei e non c’è nessuna legge che può cambiare questa realtà». Muath è un attivista di Gerusalemme e passeggiare con lui nellacittà vecchia è un’esperienza illuminante. Dice: «Gli attacchi dei coloni a Gerusalemme est sono giornalieri. La stampa israeliana non li riporta, e quando lo fa, mette sempre in discussione la versione palestinese. Per questo motivo con altri attivisti abbiamo creato gruppi di discussione online per monitorare la situazione». Ogni evento, anche il più piccolo, che accade a Gerusalemme est e nella città vecchia, è condiviso sui social networks e consente di mobilitare in tempo reale i giovani in caso di scontri con la polizia. «Non sono particolarmente religioso», confessa Muath mentre sorseggia un tè seduto da Abu Moussa, un popolare caffe di fronte all’ingresso principale della Spianata, «ma cosa farebbero in Italia se qualcuno chiudesse San Pietro per permettere ai membri di un’altra religione di pregare?». I palestinesi vedono nella Spianata delle Moschee non solo un luogo di culto, ma l’ultimo appiglio che li tiene ancorati alla città che vorrebbero divenisse la capitale di unfuturo Stato. «Quello che mi fa più arrabbiare, è l’odio diffuso da politici come Bennett, che tenta di mettere ebrei e musulmani gli uni contro gli altri. Il problema non è la religione, ma il progetto coloniale che vuole sottomettere la popolazione nativa». Muath non ha fiducia nemmeno nei suoi leader: «Abu Mazen e L’Autorità palestinese? Non hanno nessun potere qui a Gerusalemme, e nei Territori rappresentano l’altra faccia dell’occupazione israeliana. La fiducia nell’Olp e nel presidente è ai minimi storici, soprattutto tra i più giovani, sia in Cisgiordania sia a Gerusalemme». Ma da dove nasce quella che è stata definita “l’Intifada silenziosa”? Fayrouz Sharqawi, attivista di Grassroots Jerusalem, non ha dubbi: «Metti un gattino in gabbia e picchialo con un bastone per anni, ad un certo punto il gatto ti graffierà, anche se sei dieci volte più grande di lui». Fayrouz spiega che i palestinesi vivono costantemente sul filo del rasoio, tra le provocazioni e gli attacchi dei colonie la volontà di preservare l’identità palestinese di Gerusalemme nonostante «la continua giudaizzazione dei quartieri arabi voluta da Netanyahu». Secondo lui, le continue demolizioni di case, l’esproprio di terre per l’ampliamento delle colonie e la violenta repressione per ogni tipo di manifestazione critica delle politiche israeliane, sono le ragioni alla radice delle violenze: «Il 79,5 per cento dei palestinesi di Gerusalemme est vive sotto la soglia di povertà contro il 22 per cento della zona ovest, i servizi sono quasi inesistenti, interi quartieri arabi sono costantemente sotto assedio da parte della polizia: in un clima come questo, la violenza trova terreno fertile». Il comune di Gerusalemme investe solo il 10 per cento del budget nel settore est e rilascia con il contagocce i permessi per edificare ai palestinesi, mentre gli insediamenti ebraici negli ultimi anni sono cresciuti esponenzialmente e a oggi contano circa 600.000 abitanti, metà dei quali a Gerusalemme est.Occupata durante la guerra del 1967, la città è stata unilateralmente annessa da Israele nel 1980, decisione non riconosciuta dalla comunità internazionale. «I giovani», continua Fayrouz, «non credono nei negoziati con Israele, non hanno fiducia nei partiti tradizionali, come Fatah e si sentono cittadini di serie B. L’occupazione israeliana e la repressione sono le uniche cose che conoscono». I circa quattrocentomila abitanti palestinesi di Gerusalemme, a differenza degli arabi israeliani (1,7 milioni), non possiedono la cittadinanza israeliana e sono considerati “residenti” ma non cittadini. Il loro status ibrido consente alle autorità israeliane di revocarne la residenza unilateralmente. Nel resto dei Territori le cose non vanno meglio. Negli ultimi cinque mesi sono stati 17 i palestinesi - molti minorenni - uccisi dall’esercito durante le proteste contro l’occupazione e recentemente una colona è stata accoltellata a morte da un giovane di Hebron. «L’Autorità palestinesecollabora con Israele e non protegge i suoi cittadini», dice con rabbia Mohammed, un attivista di Ramallah che da voce alla “generazione Oslo”, i giovani nati a cavallo dei primi Anni Novanta che sentono di subire il peso di un accordo, firmato nella capitale svedese da Rabin e Arafat nel ‘93, dal quale non si sentono rappresentati in alcun modo. «L’Anp dovrebbe sciogliersi e non fornire ad Israele il pretesto per un’occupazione a costo zero», spiega. Le azioni di coloni estremisti in Cisgiordania sono ancora più sfrontate di quelle a Gerusalemme est: negli ultimi due anni hanno tentato di dare fuoco a dieci moschee, attaccato decine di palestinesi e tagliato migliaia di alberi di ulivo. «Che cosa dovremmo fare? Accettare l’occupazione e magari l’annessione e starcene buoni? Quello che vogliamo», aggiunge, «sono gli stessi diritti che hanno i cittadini israeliani e la libertà di muoverci liberamente». Sembrerebbero richieste banali. Eppure non esaudite a queste latitudini. E così,ciclicamente, parte la rivolta. Michele Monni,l’espresso
|