Curioso che dopo sedici anni di attività e otto film all’attivo esca nelle sale italiane il primo titolo a firma del quarantenne regista danese Nicolas Winding Refn. Si tratta di Bronson, datato 2008, terz’ultima regia di Refn, che non più di un mese fa ha vinto il premio per la miglior regia al festival di Cannes 2011 per Drive. Intanto Bronson è una produzione inglese, quindi la prima non esclusivamente danese, dopo la trilogia di Pusher (’96-2004-2005), Bleeder e la coproduzione anglo canadese di Fear X. Bronson è poi anche l’appellativo, il nome d’arte, la firma in fondo a botte e calci, di Michael Peterson, uno dei più violenti criminali inglesi del dopoguerra: 34 anni di carcere di cui almeno trenta in isolamento. Nessun caso sociale, nessuna causa politica (il primo reato è una rapina ad un ufficio postale e poco altro), ma una vera e propria furia umana che appena messo piede dentro una prigione ha cominciato a menar fendenti contro ognitipologia di guardia penitenziaria. Prigioni su prigioni, celle su celle, sempre più tetre, sempre più anguste: Bronson (un incredibile, gonfio, spropositato Tom Hardy) picchia chiunque gli capiti a tiro e deve essere immobilizzato da decine di secondini. Nel suo lungo curriculum di carcerato, anche qualche anno (terrificante, pare) in un ospedale psichiatrico. Refn prende spunto da una storia vera che fibrilla solo a leggerla e la trasforma in un film centripeto: Bronson one man show posto sul doppio binario della recita astratta del proprio destino e di una sintesi splatter entro le mura del carcere. Cinema geniale e maledetto, inaudito ed elementare, la grandezza della regia di Refn è direttamente proporzionale al progressivo dilagare della rappresentazione della violenza su grande schermo nel post anni ‘70. Ogni sequenza di Bronson è un impasto denso e talentuoso di movimento di macchina-recitazione-elemento sonoro, tale da far figurare Refn un irrequieto epigono di Kubrick. Siprenda come esempio questo carrello laterale/piano sequenza all’interno dell’ospedale psichiatrico, alla ricerca del protagonista intontito dai tranquillanti. Refn attualizza l’impulso violento di Alex in Arancia meccanica con un’estetica fatta di sangue-vomito-merda-saliva, lo depotenzia di qualsiasi moralità e ne accelera d’improvviso il ralenti della celebre manganellata lungofiume tra drughi. Bronson sogghigna austero, onnipotente, guerriero senza tempo di Valhalla rising, con il Va’ Pensiero e i Pet Shop Boys ad orchestrarne l’impeto ancestrale. Davide Turrini