Opg chiudono per legge. Parla Alberta Basaglia "Giorno importante, ma è solo il primo passo"
 











Alberta Basaglia, psicologa e vicepresidente della Fondazione Basaglia, di manicomi sente parlare da tutta la vita e forse, oggi, vede chiudersi, assieme agli Opg, anche il cerchio delle battaglie cominciate più di trent’anni fa da suo padre: “Ma - precisa - la strada da fare è ancora molta”.
Cosa pensa di quello che succederà oggi? E’ la fine del percorso cominciato con la legge 180?
“No. Diciamo che la chiusura degli Opg è una cosa importante, un passaggio di civiltà che definisce che per legge, in Italia, non possono esistere luoghi in cui segregare le persone, privarle dei loro diritti, e trattarle in un modo che spesso non si allontana dalla tortura vera e propria. E’ un buon passo avanti. Ma non è l’ultimo”
Quale sarà il prossimo?
“Credo che in futuro ci dovrà essere una presa di coscienza e una presa in carico da parte della società della sofferenza mentale e di quel che comporta. Il problema non sarà solo dovemettere le persone pericolose o malate, ma incidere sulle leggi che ancora continuano ad esistere e che stabiliscono, a parità di colpa, due regimi diversi: uno statuto speciale per le persone malate in base a quello che sono e non in base a quello che fanno. Così non può funzionare: se esiste una legge che sanziona chi fa un crimine tutte le persone devono rispondere a quella legge e devono essere giudicate per quello che fanno, non per quello che sono”.
Una volta chiusi gli Opg, però, il futuro dei detenuti malati mentali appare vago. Ancora non si sa cosa succederà alle persone che lì sono rinchiuse.
“Si parla di Rems, che dovrebbero essere strutture di passaggio, adatte ad accogliere le persone che non è possibile dimettere e che sono poche, solo qualche centinaio. Quello su cui occorrerà vigilare, ma che rischia di verificarsi, temo, è che con il tempo queste strutture finiscano con il riprodurre in piccolo, in modo più umano, pulito e meno torturante ilprincipio di segregazione dei manicomi”.
Dunque qual è la strada? Dove andranno questi pazienti-detenuti?
“Il problema non è dove metterli, come se fossero pacchi postali. Il problema è evitare che questi luoghi si ripopolino. E questo dipende dalle risposte che sapremo dare al problema della sofferenza mentale e che non possono essere delegate alle sole regioni”.
A chi toccherà farsene carico?
“Un po’ come è stato nel passato, tocca alla società tutta; credo sia importante sostenere un movimento che tenga viva la discussione e che tratti il tema, che sappia smuovere le acque con chi fa le leggi non solo sanitarie ma anche penali. Ci vorrà tempo, forse altri trent’anni, ma non bisogna avere fretta. I cambiamenti sono così: richiedono tempo. Siamo noi che abbiamo la vita corta”. Luciana Grosso,l’espresso









   
 



 
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