Ieri la strage al Charlie Hebdo ha creato un flusso enorme di informazione, di notizie prima, di commenti, analisi, emozioni trasformate in bit rappresentati in tutte le forme: parole, immagini, links, video e tutto quello che la convergenza della rete ci ha consentito. Si è già verificato in altre circostanze, dai bombardamenti israeliani a Gaza, al lutto per il terremoto in Abruzzo, alla solidarietà per Peppino Englaro, ed in tanti altri momenti della nostra vita "dentro" i social network. Che è poi diventata la nostra vita e basta o, come sostiene il filosofo Luciano Floridi, la nostra vita che non è più né "on-line" e né "off-line" ma "on-life". Durante le Olimpiadi di Monaco di Baviera, all’alba del 5 settembre 1972 un gruppo di terroristi palestinesi uccise 2 atleti israeliani e ne sequestrò altri 9, che morirono alcune ore dopo, quando la polizia tedesca tentò di liberarli. Fu un evento tragico di portata mondiale: oltre gli 11 atletiisraeliani morirono 1 poliziotto tedesco ed i 5 terroristi del commando. Il contesto erano le Olimpiadi e tutto l’iter del sequestro fino alla sua drammatica conclusione furono coperti, più o meno in diretta, dalle tv e radio di tutto il mondo. Anche allora si susseguirono gli speciali, le analisi ed i commenti. Ma erano le analisi dei giornalisti, degli esperti, i commenti delle istituzioni e dei politici. La vita allora era solo off-line e le persone parteciparono a quella tragedia nel salotto delle loro case, parlandone al bar o con il collega di lavoro, sull’autobus o sul metrò. Il riscontro erano gli occhi di un’altra persona, le risposte della moglie, del figlio o del collega, dell’amico o del commerciante. Ma tutti avevano in mente le immagini forti della televisione, le parole scritte dei giornalisti. Era difficile per chiunque comprendere nell’immediato cosa accadeva, le fonti erano quelle "mainstream" che riportavano più o meno tutte le stesse immagini, lestesse informazioni ed uniformavano lo sdegno e la paura, l’angoscia e la rabbia. Era ancora l’era dei mass-media e quello era tutto ciò che si poteva avere. Ieri intorno a mezzogiorno gli account Twitter e le homepage dei giornali italiani hanno iniziato ad informare i propri follower e lettori dell’attacco armato al Charlie Hebdo. In pochi minuti si conoscevano tutti i dettagli della tragedia: numero dei morti, feriti ed arrivavano i primi video registrati dagli stessi giornalisti rifugiati sul tetto del palazzo. La rete nel giro di qualche ora si è saturata di informazioni, tweet, retweet, post su facebook ed il mondo intero pulsava di scambio, di informazione e di comunicazione. Ieri tutti si sono potuti confrontare, esprimere i propri dubbi, i pensieri, riconoscersi nel pensiero di un proprio contatto e disapprovare l’idea di un altro. Tutto così veloce che persino un professionista dell’informazione come il direttore europeo del Financial Times, Tony Barber, in quei momenticoncitati, scrive frettolosamente un editoriale che poco dopo, di fronte all’indignazione dei suoi lettori, dovrà sostanzialmente modificare. All’inizio dell’articolo Barber afferma che che gli autori di Hebdo "sono stati davvero stupidi, che nella patria di Voltaire hanno voluto esagerare perdendo il segno del buon senso. Un buon senso che" - spiegava il direttore del dipartimento europeo del più importante quotidiano economico del mondo - " avrebbe dovuto consigliare di non provocare oltre, dato il contesto." Beh il giornalista è stato improvvido, ha mostrato sicuramente la parte peggiore di sè o semplicemente aveva pensato di scrivere frettolosamente "l’editoriale del secolo" , ma i lettori hanno respinto al mittente il messaggio, costringendo il direttore Barber a censurare e modificare il proprio editoriale. La rete ha dimostrato quanto il mondo dell’informazione digitale sia cambiato e che nessuno, proprio nessuno, può più permettersi di scrivere fesserie. Perchèil giornalismo è oggi sostanzialmente fatto da una relazione tra autore e lettore, non più un proiettile sparato a vanvera in una massa indistinta o inconsapevole. O come scrive Jeff Jarvis a proposito del nuovo ruolo dei giornalisti "Occorre altresì prendere nota di quanto afferma Dan Gillmor: il nostro pubblico ne sa più di noi. E così non è necessariamente nostro compito informare, quanto piuttosto rendere ciascuno di noi in grado di informare gli altri". È questo pulsare di informazioni, di commenti e di consapevolezza che ha portato ieri nelle piazze delle principali città europee centinaia di migliaia di persone, indignate, sorprese, impaurite, ma consapevoli e partecipi. E non è forse troppo importante se queste persone sono state o saranno coerenti tutti i giorni e tutti i minuti della loro vita (prima di oggi o d’ora in poi) con questa indignazione e questa solidarietà o se domani avranno riposto la loro indignazione nell’ultimo dei cassetti del comò. La loroconsapevolezza e la loro cultura sono cresciute. La rete li ha resi protagonisti, nella loro vita "onlife", anche solo per un momento, della solidarietà contro la violenza e contro il sopruso. E le persone non possono più essere identificate in una massa indistinta. "No more mass media" dice Jarvis, e rispetto per i lettori aggiungo, sono le regole che la rete ci sta insegnando. In ultimo, "last but not least", un "messaggio" per tutti coloro che pensano di soffocare con la violenza la libertà di espressione: la copertina del "The Independent" di oggi. Carta fattasi digitale !! Antonio Rossano,l’espresso
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