Se permettete parliamo di Congo
 











Capolavoro è una parola che bisognerebbe usare con parsimonia, persino con riverenza, timidezza. A me piace spenderla sotto sollecitazione dell’entusiasmo. L’ho pronunciata alla fine della lettura lunga, complessa, interessante, essenziale, deliziosa, dolorosa delle settecento pagine di “Congo”, libro di David Van Reybrouck (Feltrinelli). Dieci anni di lavoro, centinaia di storie raccolte: una volta entrato in questo libro non ti dai pace finché non lo termini. Protagonista è l’Africa, quella di “Cuore di tenebra”, dell’esplorazione coloniale. Ma anche l’Africa modernissima dei genocidi, delle guerre etniche, delle ricchezze minerarie. l’Africa degli uomini leopardo che lottano nell’ombra contro l’uomo bianco, e quella dei neri évolués che a inizi ’900 imitavano il modo di vestire dei colonizzatori.
L’incipit del libro è già memorabile: ci si avvicina alla costa del Congo in nave e Van Reybrouck, scrittore belga, fiammingo, inizia a descrivere leacque del fiume, i colori, che dal blu si fanno sempre più tendenti marrone: sono acque che dopo aver percorso centinaia di chilometri raccogliendo terra, piante e detriti di ogni genere, sfociano in un estuario grandioso. Il Congo è forse la terra più sfruttata al mondo, non solo dall’uomo bianco. I primi grandi mercanti di avorio impararono presto quanto fosse più vantaggioso razziare che commerciare; venivano dalla islamizzata Zanzibar e avevano potere enorme. Henry Morton Stanley, il grande esploratore che voleva raggiungere la foce del fiume Congo, dovette accordarsi per il suo viaggio proprio con un mercante di Zanzibar detto Tippu Tip dal rumore che faceva il suo fucile. La ricchezza del Congo sembra inesauribile: da lì partirono quattro milioni di schiavi verso l’America. Quando diventa colonia belga sotto Leopoldo II, quando non sembra poter dare risorse maggiori della carne umana, un medico scozzese inventa lo pneumatico in gomma, quindi la richiesta di caucciù inizia adarrivare da ogni parte del mondo e il Congo ne è pieno. La prima bomba atomica è stata fatta con uranio congolese e dopo l’uranio c’è il coltan, che serve all’industria elettronica. Senza coltan non ci sono telefonini, non ci sono computer, non ci sono smartphone, tablet. E poi diamanti, e oro.
Questo libro è straordinario nel descrivere i passaggi che esistono tra la scoperta di una ricchezza e la distruzione della vita. Passa dal colonialismo belga al colpo di stato di Mobutu che avrebbe dovuto portare democrazia e che invece porta a un regime tirannico, violento, persino ridicolo.
Ma la vera forza è che fa parlare persone, molto spesso sconosciute, le cui esperienze di vita sono fondamentali per conoscere e comprendere non solo il Congo e l’Africa, ma anche il ruolo dell’Europa. Uno dei protagonisti indimenticabili è Papa Nkasi, un uomo che sarebbe nato nel 1882 che Van Reybrouck intervista nel 2008 a Kinshasa attorniato dalla sua famiglia. E già questo sembra un paradosso:intervistare un uomo di 126 anni quando l’aspettativa di vita di un congolese è in media di 45.
Ecco, si affastellano personaggi incredibili in questo libro. I resti della fama di Stanley, addirittura persone che lo hanno conosciuto; c’è chi racconta di quando Che Guevara tentò di fare la rivoluzione in Congo; testimonianze sull’incredibile incontro di boxe tra Ali e Foreman, avvenuto proprio a Kinshasa. E poi i congolesi dello Guangzhou - ben centomila africani congolesi - ovvero l’incredibile “cinesizzazione” del Congo. C’è il racconto di come i congolesi imparino le lingue d’istinto; lo hanno fatto con il fiammingo, con il francese, lo hanno fatto con l’inglese, e addirittura hanno imparato il cinese senza studiarlo: un talento vero. E poi ci sono racconti che difficilmente arrivano da noi pur se incredibili: la guerra tra Joseph Kabila e Jean-Pierre Bemba, lotta prima militare e poi elettorale che Van Reybrouck racconta attraverso la guerra della birra, ovvero marche di birrache si legano ai leader guerriglieri. In “Congo” non c’è una lettura tipica dell’Africa e Van Reybrouck non ha il tono da allievo bianco di Frantz Fanon. A lui non interessa giustificare la ferocia nera, ma racconta piuttosto un paese che ha cambiato tre inni nazionali con tre diversi leader (Mobutu, Kabila, Kasa-Vubu) che cambia nome come fosse la cosa più normale. Racconta la decolonizzazione tragica del Congo, dopo averne raccontato la colonizzazione. Decolonizzazione che ha avuto molti punti ciechi e pochi, occasionali, momenti di lucidità. Dimenticate tutto ciò che sapete dell’Africa, tutti gli stereotipi, i luoghi comuni e tuffatevi in questo libro. Che è un’opera gigante. roberto saviano,l’espresso

 









   
 



 
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