Ci volevano cinque anni di una crisi spaventosa, la peggiore dalla seconda guerra mondiale, con la perdita secca del 25% (un quarto!) della base produttiva italiana, per rendere attuali le profezie contenute in Agathopia, il più celebre saggio di James Meade, grandissimo economista inglese premio Nobel nel 1977, scomparso il primo giorno del 1996. “Recentemente ho preso il mare per visitare l’isola di Utopia che, mi è stato detto, costituisce un luogo perfetto dove vivere”, scriveva Meade. “Purtroppo non ho potuto trovare questa terra in nessun posto. Tuttavia, sulla strada del ritorno, casualmente mi accadde di vedere la vicina isola di Agathopia, i cui abitanti non rivendicano certo la perfezione dei loro ordinamenti sociali, ma asseriscono che la loro contrada è un buon posto dove vivere”. E che succede in Agathopia? Semplicemente che in tantissimi lavorano, dividono costi e benefici, il dividendo sociale consente a tutti di prendere qualcheragionevole rischio imprenditoriale, si sviluppa una forma di cooperazione evoluta e realistica. Non è socialismo, perché appunto quello appartiene ad Utopia e quindi è per definizione irraggiungibile, è solo una suddivisione del lavoro più ragionevole, una più sana partecipazione dello Stato alle vicende dei cittadini, una più plausibile ripartizione del reddito e del lavoro fra chi “ha” e chi non “ha”. È keynesianesimo puro, distillato, e di Keynes infatti Meade fu il più vicino epigono, allievo e anche critico. Ed è quanto si cerca pragmaticamente di realizzare nella tante fabbriche dismesse, riprese in mano con coraggio e abnegazione dagli stessi operai e riavviate a nuova insperata vita. Per la verità una lontana rimembranza con gli ideali marxisti c’è: i primi in assoluto furono infatti gli operai nella fabbrica Putilov di Pietrogrado nel 1917, e dettero un contributo non indifferente alla rivoluzione d’ottobre. Ma i casi più celebrati sono molto più recenti, vanno dalleempresas recuperadas in Argentina ai tempi della crisi del 2001 (che sono peraltro in continuo aumento tanto che al censimento 2002 le aziende erano 28 e a quello 2012 erano 323) alla Grecia dei giorni nostri. Qui l’esempio è la Metaleftiki Viomijanikì di Salonicco dove nel 2011 i manager travolti dalla recessione, alla quale non sapevano come opporsi, furono letteralmente buttati fuori dalla fabbrica e sostituiti dagli operai. E ora è la volta dell’Italia. Dalla vecchia Rsi (Rail System International), una società del gruppo Wagon Lits riattivata dagli operai allo scalo romano di Portonaccio, alla metalmeccanica Maflow di Trezzano sul Naviglio, dall’ex cementificio Buzzi-Unicem di Santarcangelo di Romagna ai Cantieri Navali di Trapani. Aziende di ogni settore e dimensione che rinascono grazie allo spirito di sacrificio, alla grinta, all’impegno e anche, perché no, all’amore per il lavoro delle vecchie maestranze. E la prova che la formula sia vincente (non in tutti i casi per laverità) sta nel fatto che gli operai diventati manager di se stessi il più delle volte finiscono con l’attirare la solidarietà e l’appoggio anche economico delle istituzioni, dai Comuni fino alle banche creditrici (è per esempio il caso dell’Unicredit che anziché vendere all’incanto i beni della fallita Maflow li ha dati in gestione agli ex dipendenti). Perché la lezione è potente: non occorre trarre un profitto miliardario da una fabbrica, e neanche inseguire i miti delle produttività a tutti i costi, quella che secondo le teorie economiche monetariste impone di tirar fuori più prodotto possibile con il minor impiego di manodopera possibile. No, qui la sfida è tirar fuori più prodotto, ovviamente con attenzione alla qualità, facendo viceversa lavorare più gente possibile. Ed è una sfida che spesso viene vinta. Vecchie fabbriche vengono trasformate da monumenti di archeologia industriale a centri nuovamente pulsanti di attività economiche. Magari non le stesse delle origini, macomunque in grado di creare occupazione, sviluppo ricchezza. Vecchie professionalità vengono nuovamente valorizzate, con in più lo stimolo e l’entusiasmo di non dover più dipendere da nessuno. E in fondo è l’ “economia della partnership” a trionfare, proprio quella preconizzata da Meade. Il quale, realisticamente, nel 1988, alla vigilia della caduta del Muro, scriveva: “Osservo con interesse come al di là della Cortina di ferro si stia discutendo di come introdurre elementi di redditualità nell’economia di piano, mentre al di qua si tenda a creare forme istituzionalizzate di maggiore solidarietà sociale e di eguaglianza in un sistema, quello capitalista, in cui la ricerca individuale e competitiva del guadagno appare incontrollata. Il nostro tempo ci pone un’occasione irripetibile per un costruttivo scambio di posizioni”. Ecco, il “nostro tempo” in Italia sembra proprio quello presente. In fondo. È un grande messaggio di speranza. Eugenio Occorsio
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