Quirinale, uno scontro di civiltà
 











E’ inutile almanaccare oggi sull’esito, certo comunque fragilissimo, degli sforzi del Pd per formare un governo. Ed è ancor più inutile ripetere che queste elezioni hanno messo a nudo una crisi sistemica, che in altre epoche e in altri contesti si sarebbe risolta soltanto con rivoluzioni politiche vere e proprie. Come consolidata abitudine, accadono cose nel nostro Paese che sono per un verso autentica follia, al di là di ogni schema interpretativo standard, e, per un altro, anticipazioni di scenari possibili, premonizioni di comuni destini per gli attuali, asfittici regimi democratici.
Il mix forma a volte autentici drammi, che potrebbero essere degni di un tragi-comico Shakespeare più che di Dario Fo. Tra le scene del dramma, per assistere al quale darei un anno di vita, porrei l’incontro tra il Presidente Napolitano e il vincitore delle elezioni, nonché leader del primo partito-non-partito italiano, Grillo.
Nessuna fantasia di poeta avrebbe
potuto immaginare "collisione" più irreale, "guerra" di mondi più lontani e l’un l’altro estranei, eppure costretti, magari per un momento, a "incontri ravvicinati". Solo da noi poteva accadere. Laboratorio o delirio? All’inclito pubblico la sentenza.
Faccia a faccia l’incomponibile, ecco il dramma: da una parte, la cultura politica del Novecento, in uno dei suoi volti più nobili, il leader che ha concepito tutta la propria "missione" nel senso del contenere e frenare gli impulsi eversivi provenienti dalla propria stessa base sociale, di dare a essi una forma organizzativa e politica, inseguendo l’ideale del partito "moderno Principe", autorevole non solo per solidità morale, ma per la selezione, preparazione e competenza della sua classe dirigente; dall’altra, il rappresentante dello sfascio storico, almeno in Italia, di quell’ideale, e che sulle sue rovine costruisce le proprie fortune; il sintomo, preziosissimo a saperlo leggere, della crisi dell’idea stessa di rappresentanza,
sostituita dai miti della partecipazione diretta e della "bontà" tout-court del "popolo sovrano".
Da una parte, il Novecento delle grandi organizzazioni di massa, della "battaglia delle idee", tragedia e nobiltà; dall’altra, la "società liquida", sterminata massa di solitudini che si incontrano nel web "immateriale", la cui Voce Grillo raccoglie e ripete. Naturalmente, finge, da artista qual è, di raccogliere e ripetere. E’ lui, e solo lui, a orchestrare il rapporto. Ma è la finzione che conta, e questa per il momento è perfettamente riuscita.
Ma occorrerebbe che il nostro poeta riuscisse a far intendere anche l’aspetto umano di questo "scontro di civiltà". Nelle parole che Napolitano rivolge a Grillo dobbiamo avvertire il timbro di una profonda delusione, se non del fallimento: come è potuto accadere? Quali colossali errori abbiamo commesso, noi vecchi e quelli da noi allevati, perché le culture politiche di questo Paese naufragassero così miseramente? Per arrivare al 75 per
cento degli italiani che o non votano o votano populismi di diversa natura, e questa volta senza neppure crederci, con perfetto disincanto?
Ma anche nel discorso di Grillo, o meglio nei suoi apodittici enunciati, un senso di angoscia è necessario che traspaia. Arriva il momento in cui occorre decidere. Abissale distanza tra protesta, denuncia e decisione, tra la rendita che ottieni dalla protesta e il momento in cui sei costretto a investirla decidendo.
Naturalmente, è possibile fingere anche di voler decidere: sparando richieste che automaticamente impediscono ogni compromesso. Un artista può farlo. Ma ogni commedia o tragedia giunge alla fine: anche quelle dell’assurdo, di un assurdo che neppure Ionesco avrebbe mai immaginato, come quella che per involontarissimi protagonisti ha in questi giorni il Presidente Napolitano e Beppe Grillo. Massimo Cacciari-l’espresso