Anche la globalizzazione ha il fiato corto
 











La trasformazione delle economie nazionali in economie più ampie ha portato nel breve giro di circa 50 anni alla formazione di quella che oggi chiamiamo economia globale, o “globalizzazione”, per la sua capacità di estendersi rapidamente in tutti gli angoli del globo.
Dapprima sono stati, nell’immediato dopoguerra, gli accordi commerciali tra più stati, ad allargare gli orizzonti delle singole economie, ma poi, a partire più o meno dagli anni 70 del secolo scorso, è stata l’idea di una completa liberalizzazione dei mercati a far cadere una alla volta molte barriere e a far aggregare economie anche molto distanti tra loro, sia sul piano geografico che economico, in virtù di interessi, a dire il vero, non sempre coincidenti sul piano nazionale, ma comunque sempre assai rilevanti dalla parte degli investitori, e in particolare, degli speculatori.
La teoria, non perfettamente dimostrata, che i mercati riescono ad autoregolarsi da soli, governati
dal principio della competizione, ha illuso per interi decenni anche economisti molto qualificati, come per esempio il precedente presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan , che ha guidato la Banca Centrale americana da Reagan fino a Bush 2.
Ci ha pensato poi la tremenda crisi scoppiata nel 2008 a riportare tutti con i piedi per terra. O meglio, tutti quelli senza interessi diretti nei lucrosissimi affari che si possono fare nel libero mercato privo di regole e vincoli. Infatti sono sempre gli stessi, in prima fila i grandi speculatori, ad opporsi pervicacemente a qualunque regola che limiti la loro possibilità di stare nei mercati come se fossero al Casinò.
È così che, per scongiurare il pericolo di avere governi che ficcano il naso nei loro affari spendono milioni di dollari a ingrassare interi eserciti di lobbisti che hanno l’unico compito di fermare ogni iniziativa legislativa tendente a mettere regole. Ma il gioco vale evidentemente la candela, visto che fin qui ci
sono riusciti perfettamente.
Nonostante tutto questo, tuttavia, sembra che anche la “globalizzazione” selvaggia sia capace ad un certo punto di produrre non solo micidiali crisi, come quella del 2008, ma anche ... si, anche di autoregolarsi. Non però nel modo semplice, morbido e automatico che sognavano (o semplicemente volevano far credere) gli illusionisti istituzionali del libero mercato, ma nel modo spietato, duro e selvaggio che regola le leggi della jungla. “Mors tua, vita mea!”.
La civiltà? Le religioni? Gli Organismi Internazionali? Cose utili per il contorno, finché non ostacolano la marcia. L’unica legge veramente necessaria secondo loro era la legge del mercato, quella bastava a regolare tutto. Da sola provvedeva a promuovere sia le opportunità necessarie per lo sviluppo che gli automatismi livellatori per le dismissioni. Come in un pendolo dotato di moto perpetuo.
Nei paesi industrializzati il sistema ha funzionato per circa 50 anni, specialmente da Reagan in poi.
Ma ha funzionato perché sostenuto da una crescita continua, sempre più vigorosa e massiccia. Una crescita che però, nell’indifferenza di chi doveva vigilare e/o guidare gli organismi interni ed internazionali, molto presto non è stata più sostenuta da materia sana, come nel corpo sano, ma da materia malata (la finanza creativa, i derivati, ecc.), come nei fenomeni tumorali.
Finché il corpo sano ha potuto sostenere la crescita abnorme dell’elemento estraneo, tutto è proseguito nell’apparente normalità, quindi è iniziata la metastasi, che anche in questo caso non è mai immediata, ma è lenta e dolorosa, e porta al blocco totale dell’organismo se non è curata e fermata per tempo.
La contemporanea combinazione dei due fenomeni, globalizzazione e finanza creativa, entrambi sostenuti reciprocamente dalla opportunità di una crescita che sembrava inarrestabile e dalla regola-non regola che il mercato si autoregola da se, ha prodotto una economia globale folle, capace di crescere a
dismisura perché pronta a buttarsi su tutte le opportunità, senza però riuscire a distinguere, a causa dell’estrema competizione, le vere opportunità dai miraggi.
Cosa che non può sorprendere però, perché chi opera sul mercato con operazioni di compra-vendita che si compiono alla velocità dei nanosecondi, non ha tempo di fare analisi sensate, deve accontentarsi di fare calcoli probabilistici o altre diavolerie matematiche che hanno poco o niente a che fare con i valori sani di una economia sostenibile.
Ora il mercato, tutto il mercato, comincia a sentire il peso della massa tumorale che lo attanaglia ed opprime, e cerca perciò di liberare energie nel tentativo di ristabilire un equilibrio. Ma persino nelle economie emergenti ci sono già evidenti segnali che il treno perde velocità, perché il maggiore propellente veniva proprio dalle economie ora in crisi, che ne mandano sempre di meno. Chi cerca l’equilibrio oggi, è già in ritardo. Perché la massa tumorale che ingolfa l’organismo
globale è composta da un debito che è già grande almeno dieci volte tanto quanto l’intera ricchezza che si produce nel globo, e nessun paese debitore è in grado oggi di pagare interamente il suo debito alle condizioni attuali. E forse nemmeno dilazionandolo di dieci anni potrebbe, e nemmeno se gli venisse consentito di pagarlo senza interessi, perché sarebbe comunque un sacrificio talmente elevato che lascerebbe il paese debitore completamente esausto.
Chi fa l’esempio dell’Argentina (che comunque ha consolidato in buona misura il suo debito) non tiene conto che dieci anni fa era solo l’Argentina ad essere sull’orlo della bancarotta, oggi c’è mezzo mondo industrializzato ad esserlo, ed è un mondo molto più “globalizzato”, quindi interconnesso. Oggi è molto meno facile trovare nuovi soggetti dotati di buona solvibilità disposti ad assumersi ingenti debiti. Gli interlocutori sono tutti nella situazione o di essere già tra i forti paesi indebitati, e quindi nella necessità di ridurre i
debiti, oppure di non esserlo e perciò di non volerlo diventare.
Essendo praticamente impossibile attivare unilateralmente la scelta di non pagare i propri debiti, l’unica strada da percorrere è quella di convincere i governi a premere (o forzare) sui creditori per obbligarli ad assumere responsabilmente adeguate formule di auto-cancellazione o almeno sostanziale riduzione dei crediti che vennero assunti con finalità e modalità puramente speculative, o anche solo grazie ad una poco oculata analisi delle capacità di rimborso del debitore.
È una regola che vale nel libero mercato per le aziende e per le banche: chi concede prestiti senza fare le dovute analisi si assume grossi rischi e se il debitore fallisce, il creditore perde i soldi.
Gli Stati non possono fallire, ma nemmeno possono andare in malora solo perché degli avidi strozzini hanno concesso un credito facile e poi hanno messo il cappio attorno al collo del debitore per costringerlo a pagare. L’usura non può essere
consentita a nessun livello. E comunque, nel mondo globalizzato che gli usurai hanno voluto costruire con il benestare di politici incapaci o conniventi, non conviene nemmeno a loro tirare troppo la corda, perché già si vede come va a finire. Se si va avanti così, finirà con una crisi che a poco a poco attanaglierà tutti e finirà che nessuno pagherà più nessuno.Roberto Marchesi (Dallas - Texas)