-Le mafie fenomeno dilangante-
 







Gemma Contin




Ecco come le Mafie Spa finanziano le imprese in tempo di crisi globale
Non solo pizzo. Non solo narcotraffico. Non solo scommesse clandestine. Il giro del business delle Mafie Spa è molto ma molto di più. Ed è molto ma molto vicino all’economia legale, ai professionisti perbene, alla gente comune.
Intanto, secondo recenti affermazioni del vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia Fabio Granata, le mafie muovono ogni anno una massa finanziaria di 120 miliardi di euro. Pari al 10% del prodotto interno lordo italiano, cioè la decima parte dell’intera ricchezza prodotta da tutte le attività industriali, commerciali, finanziarie, amministrative e dei servizi pubblici, privati, tradizionali e avanzati dell’intero Paese. Insomma, i capitali mafiosi finiscono per introdursi e forzare vaste aree geografiche e diversi settori produttivi dentro cui vanno ad annidarsi e da cui è poi difficilissimo,
spesso impossibile, rintracciarli e snidarli.
Ne ha scritto in modo ampio, carico di dati, la Direzione investigativa antimafia (Dia) nella relazione che invia ogni sei mesi al Parlamento. In quest’ultima (gennaio-giugno 2009) la questione della circuitazione delle attività e dei capitali mafiosi nell’economia legale in tutte le diverse forme e poli di attrazione, ci pare che abbia assunto un peso preponderante rispetto alle attività mafiose "tradizionali" quali il narcotraffico, le estorsioni, le intimidazioni, i danneggiamenti, eccetera.
Naturalmente niente di tutto ciò è dimenticato, ma alcuni dati in diminuzione sui delitti più cruenti tendono a dire che le mafie oggi cercano di fare lucrosi affari nel silenzio delle armi piuttosto che con il controllo del territorio manu militari . Con non poche eccezioni, che riguardano più le cosche di camorra e le ’ndrine calabresi che i clan di Cosa Nostra, alquanto sfiancati dall’enorme mole di arresti di latitanti e sequestri e
confische di patrimoni, oltre che dalla decimazione dei capi, quasi tutti in carcere condannati a pesanti pene detentive e sottoposti al regime del 41-bis. Quasi tutti. Tranne Matteo Messina Denaro, che latita indisturbato, o gli "emergenti": quelli nuovi, sconosciuti, e quelli di ritorno come i rampolli degli Inzerillo e dei Badalamenti.
Su quali attività "lecite" le mafie allungano le mani? E dove? Per la mafia siciliana: ciclo del calcestruzzo (impoverito), appalti finanziati con fondi europei, centri commerciali, energie alternative (eolico). Per la ’ndrangheta: sanità (cliniche convenzionate, forniture ospedaliere, cooperative di servizi), trasporti, opere viarie, imprese edili, ristorazione. Per la camorra: ciclo dei rifiuti, produzione e commercializzazione di marchi contraffatti, manutenzioni stradali, Tav, complessi turistici, onoranze funebri. E dal punto di vista territoriale: ristoranti e turimo in Emilia Romagna; mercati generali e Tav nel Lazio; Expo 2015 e Grandi
Opere in Lombardia.
Ma siccome purtroppo non ci si ferma qui, è bene andare con ordine, seguendo il ragionamento degli investigatori al servizio del generale Antonio Girone, che scrivono, nella premessa della Relazione che il ministro dell’Interno Maroni dovrà illustrare al Parlamento: -Gli effetti generali della congiuntura negativa globale, che affligge in questo momento storico tutte le economie più avanzate, non mancano di generare la ricaduta di una forte contrazione dell’erogazione del credito nei confronti di diverse categorie imprenditoriali, già colpite da diversi fattori recessivi dei mercati. Tale circostanza, come sottolineato da tutti i principali osservatori istituzionali, può costituire, specie nelle regioni a più elevato rischio, un’appetibile opportunità di intervento per l’economia mafiosa, che, attraverso un sapiente e sinergico dosaggio dell’estorsione e dell’usura, trova ancora più forti premesse per le possibilità di infiltrazione nell’economia legale, a fronte
della sua notevole disponibilità di capitali illeciti sommersi-.
Siamo di fronte a una sorta di "svolta critica" nella percezione e nell’analisi del fenomeno mafioso e della sua pericolosità sociale economica e finanziaria. Ovviamente la relazione bisogna leggerla per intero - anche se pesa ben 360 pagine fitte di grafici e indicatori, scaricabili e consultabili sul sito della Dia www.interno.it/dip_ps/dia cliccando su relazioni semestrali - perché fa riferimento alle più importanti operazioni condotte a termine, nel semestre in esame, sia in materia di arresti effettuati, sia in tema di confische patrimoniali, ma anche nella descrizione delle organizzazioni, dei clan e dei loro insediamenti regione per regione, città per città, con tanto di nomi e cognomi e affiliazioni.
Qui vale la pena evidenziare alcuni passaggi "rivelatori". Come quando si legge, a proposito della mafia siciliana, -dell’interesse
dimostrato dalla compagine mafiosa per i circuiti della distribuzione commerciale, che rappresentano non solo un importante strumento di riciclaggio e di reimpiego del denaro, ma anche un ambito all’interno del quale, per l’indotto lavorativo connesso, Cosa Nostra riesce ad esprimere una significativa influenza e penetrazione locale, che consolida il potere illegale sul territorio-.
Quello che più colpisce, oltre all’entità stratosferica dei patrimoni sottoposti a sequestro - 400 milioni di euro a un imprenditore agrigentino nella sola Operazione Scacco Matto - è la descrizione del "panorama", degli "orizzonti", degli "strumenti" e dei "professionisti" di cui le mafie si avvalgono. A proposito dell’Operazione Moro, la Dia scrive di -un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di un avvocato tributarista, ritenuto responsabile di aver concretizzato un canale per il traferimento fraudolento di valori e l’intestazione fittizia di beni, con il successivo collocamento all’estero di
ingenti disponibilità finanziarie riferibili a un imprenditore mafioso... Ordinanza che aveva portato all’arresto dell’imprenditore, di suo figlio e di un banchiere elvetico (co-direttore della Amer Bank di Lugano) nonché al sequestro di un fondo presso la Amer Bank and Trust Limited di Nassau (Bahama) di 13 milioni di euro-.
E siamo solo al capitolo su Cosa Nostra. Poi c’è quello sulla ’ndrangheta, sulla camorra, sui clan pugliesi, sulle mafie "allogene": russa, cinese, albanese, nigeriana, con tutte le cartine e gli assi di penetrazione in Liguria, Piemonte, Lombardia, Triveneto, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Lazio. Quest’ultima attraversata da un fenomeno criminale tanto pervasivo da essere definito dall’Osservatorio regionale per la sicurezza -la quinta mafia-.
Stato forte con i terroristi ma debole con la mafia. Perché?
In copertina una foto che sembra Beirut, invece è Palermo.
Si intitola Le due guerre
l’ultimo libro di Giancarlo Caselli (Melampo editore, 157 pagine, 15 euro). Il sottotitolo spiega di che guerre si tratti: «Perchè l’Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia».
Perché l’Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia? Forse ognuno può dare una risposta a questa semplice evidenza, che qui si vuole intenzionalmente riproporre in forma di domanda. Una risposta facile facile, come quella tratteggiata nella postfazione da Marco Travaglio, che scrive: «Questo libro è soprattutto un album di famiglia. La famiglia delle classi dirigenti italiane alle prese con i suoi tre figli naturali e deformi: il terrorismo, la corruzione e la mafia. Il primo fu combattuto e vinto perché si era rivoltato contro i suoi padri: applausi ed encomi solenni ai magistrati e alle forze dell’ordine che lo combatterono e lo vinsero, con ampia delega in bianco. Il secondo e il terzo si finse di volerli combattere, illudendo i cittadini e mandando allo sbaraglio pochi magistrati, quasi
"volontari", ai quali fu poi revocata la delega quando stavano per farcela. Perché la corruzione e la mafia erano figli legittimi, somiglianti ai loro padri come le gocce d’acqua».
Molto altro si potrebbe dire. Ad esempio che il terrorismo stava per la più parte fuori dallo Stato, con qualche cordone ombelicale segreto e inconfessabile, e alla fine sconfessato, mentre la mafia e la corruzione - chiaro il riferimento di Travaglio alla stagione di Tangentopoli e di Mani Pulite - hanno allignato e continuato a mantenere strettissime connessioni, e a godere di ferree complicità, nei gangli profondi dell’amministrazione della cosa pubblica e dello Stato, nelle sue stesse modalità di interpretare e organizzare la "vita democratica", ovvero le formazioni politiche e il consenso.
E poi il terrorismo, se si escludono il folklore dei cosiddetti "espropri proletari" o la ferocia sanguinaria delle rapine per "autofinanziarsi", non interveniva - né aveva tra i suoi "obiettivi politici" di
intervenire, e questo la dice lunga sulla sua portata "rivoluzionaria" - nelle connessure economiche e finanziarie del sistema: la marxiana questione della "sottostruttura"; viceversa, la corruzione e soprattutto la mafia fondano la loro stessa esistenza e gli interessi prevalenti - come il capitalismo peraltro - esattamente in quella dimensione economica e finanziaria; intercettando al tempo stesso affari leciti e flussi illeciti, in quella che potremmo chiamare - ricorrendo ancora una volta a Marx ed Engels - "l’accumulazione primaria": da difendere con le armi, con le stragi, con l’uccisione dei "fedeli servitori": magistrati, forze dell’ordine, politici "nemici", funzionari irreprensibili, giornalisti scomodi. Ed è questo, assieme all’organizzazione militare, il punto di sutura in cui mafia e terrorismo incrociano - si incrociano - le loro modalità di scontro con lo Stato.
Cosa racconta l’attuale procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli? Racconta, sul filo del ricordo fermo
e presente, le sue due vite "parallele". Una volta come giudice istruttore nella capitale piemontese, la sua città, impegnato nelle grandi indagini sul terrorismo rosso, le prime Br e Prima Linea: da Renato Curcio e Mara Cagol a Mario Moretti, da Alberto Franceschini a Patrizio Peci. Dieci anni, se si contano da Piazza Fontana a Via Fani, quindici se si arriva ai primi Anni Ottanta, di cui Caselli scrive: «Dal 1980-81 in poi, quando quella dei pentiti diventò un’autentica slavina, assistemmo soltanto più ai colpi di coda, spesso inutilmente sanguinari, di un terrorismo rosso morente, sconfitto, asserragliato nella giungla di cemento della clandestinità come i soldati giapponesi alla fine della Seconda guerra mondiale».
Una guerra vinta, sostiene il magistrato, perché lo Stato seppe, e volle, darsi gli strumenti legislativi e giudiziari, attivandoli e adattandoli sia sul piano dell’organizzazione del lavoro dei giudici e dei pm, dando vita al primo pool antiterrorismo, sia mettendo a
disposizione le forze di intelligence necessarie, nonostante le vite stroncate e i "martiri" rimasti sul campo, anche in quel caso tra i carabinieri e i poliziotti, i magistrati e i giornalisti, i sindacalisti e i cittadini inermi: nomi e cognomi noti e meno noti, ricordati e da ricordare, che messi in fila disegnano la lunga scia di sangue della follia terrorista.
E poi ecco la sua seconda vita, la sua seconda guerra, dopo gli anni del Csm che dovette occuparsi proprio dei "veleni di Palermo", dei "corvi al Palazzo di Giustizia", delle lotte intestine per far fuori politicamente e giurisdizionalmente magistrati antimafia come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, le cui carriere - decise nel segreto del voto dei consiglieri superiori della magistratura - sarebbero state regolarmente e ripetutamente misconosciute e mortificate, fino a isolarli, metterne in discussione la credibilità, fino a portarli e a lasciarli soli sull’orlo dell’abisso, dove infatti puntualmente verranno
precipitati con gli attentati del ’92.
Caselli arriverà a Palermo, nel posto che avrebbe dovuto essere di Falcone e che sempre gli fu negato, il 15 gennaio del 1993, il giorno dell’arresto del superlatitante corleonese, il "capo dei capi" Totò Riina, sei mesi dopo l’eliminazione dei due pm antimafia per eccellenza.
Uno dei suoi compiti fondamentali sarà quello di rivitalizzare il pool prima raso al suolo dai capi della Procura Antonino Meli e Pietro Giammanco e poi "sterminato" non solo dalle stragi ma anche dai "veleni" e dalle lotte intestine che hanno continuato a impestare la giustizia siciliana.
Il secondo compito assunto come "imperativo" dal magistrato piemontese fu quello di andare avanti sulla strada - appena iniziata da Falcone nel primo maxiprocesso, con le dichiarazioni dei pentiti e di Tommaso Buscetta in particolare - delle connessioni tra mafia e potere politico. Una strada battuta da Caselli che porterà all’incriminazione e al riconoscimento di colpevolezza -
condanna prescritta - per oggettivo "fiancheggiamento" dell’associazione mafiosa. Giudizio confermato in appello contro cui il senatore non ha mai presentato ricorso per ripristinare la sua piena e intangibile onorabilità vulnerata.
Il termine lo usiamo appositamente perché tra i due terrorismi, quello politico e quello mafioso, ricorrono termini in comune come appunto "fiancheggiatori", "pentiti", "vendette trasversali". E di queste ultime ne vanno citate due, speculari, quasi copiate l’una dall’altra, con la tortura e l’uccisione di Roberto Peci, fratello del pentito Patrizio, e del piccolo Giuseppe Di Matteo, sequestrato e segregato per due anni, ammazzato come "un cagnuleddu" e infine sciolto nell’acido per vendetta e per mettere a tacere il padre, il "pentito" Santino Di Matteo.
Nel caso di Cosa Nostra fiancheggiamento nel senso di connivenze, coperture, relazioni tenute e mantenute per il tramite dell’onorevole Salvo Lima e dei cugini esattori Nino e Ignazio Salvo. Delitto
perpetrato fino al 1980 - e venuto meno secondo il giudice dopo quella data, con l’uccisione del presidente della Regione Piersanti Mattarella - da Giulio Andreotti, capo dell’omonima corrente democristiana, innumerevoli volte sottosegretario di Stato, 25 volte ministro, sette volte presidente del Consiglio, membro dell’Assemblea Costituente, parlamentare eletto dalla prima alla decima legislatura, oggi senatore a vita nominato nel 1991 dal suo sodale e amico di partito Francesco Cossiga mentre era Presidente della Repubblica.
Ripartiamo da qui. E rifacciamoci la domanda: perché l’Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia?
La mafia pugliese, tra scheletri di una faida, droga e videopoker
Ci sono notizie che spariscono: che hai sentito al giornale radio, un po’ distrattamente mentre guidi tra casa e lavoro; o che si è letto navigando in internet sui siti dei giornali online; o visto passare velocemente nel mezzo di
un telegiornale; e che poi non riesci più a rintracciare. E’ la maledizione dell’informazione effimera, di cui se si vuole si riesce a far perdere ogni traccia.
Eppure che in Puglia, forse sul Gargano, sia stato trovato quello che nel notiziario veniva definito "un probabile cimitero della mafia pugliese", è una notizia colta al volo ieri, in uno dei telegiornali tra l’una e le due del pomeriggio, ma scomparsa del tutto dal sistema mediatico. E il cronista, allenato a cogliere anche piccoli indizi e fonti secondarie, sa di non aver avuto le traveggole, si ricorda anche le immagini: di una ruspa che scavava e portava su da una fossa comune dei resti umani, o che sembravano tali.
E invece niente. Gira e rigira in tutti i siti, cerca e ricerca sui blog dei tiggì, vai a sfogliare i giornali locali: niente; la notizia è sparita.
Peccato, perché sarebbe stata un’ottimo incipit per parlare di una delle organizzazioni criminali meno note e ritenute, con un grave errore di
sottovalutazione, secondarie se non marginali. Ma se si vanno a scorrere le pagine ad esempio della Gazzetta del Mezzogiorno - che ieri parlava degli "avvistamenti" dei "nuovi zar russi" a bordo dei loro yacht che attraccano sulle coste pugliesi e nei porticcioli turistici, o che rimangono ben distanti alla fonda al largo della penisola salentina, o del golfo di Gallipoli, o nei dintorni di Taranto - si capisce che la Puglia è uno dei crocevia delle "nuove mafie": uno dei territori "caldi" sulle rotte criminali, non fosse che per il suo "affaccio" sul Canale d’Otranto e per il breve braccio di mare che la separa dalle coste dalmate e illiriche e albanesi, su cui premono tutte le spinte e le tensioni dell’Esteuropa.
E si capisce immediatamente la ragione per cui la Sacra Corona Unita è una delle organizzazioni criminali oggetto di un apposito capitolo dell’ultima relazione della Direzione Investigativa Antimafia, assieme ad un altro capitolo, per le significative connessioni con
essa, che ha acceso i riflettori su quelle che vengono definite "mafie allogene", ovvero le mafie straniere presenti in Italia o che con quelle endogene intrattengono rilevanti affari criminali e traffici illeciti transnazionali.
Per l’esattezza la Dia tiene assieme - nel documento inviato al Ministero dell’Interno, relativo al secondo semestre 2008 - la mafia pugliese e quella lucana, chiamata "I Basilischi", benché i due fenomeni abbiano storie,insediamenti e capacità pervasive del tutto dissimili.
Scrive la Dia: «Nel semestre in esame non si ravvisano particolari mutamenti strutturali del fenomeno criminale organizzato pugliese, che continua ad essere connotato dai noti profili di fluidità e poliedricità. Tali caratteristiche qualificano l’intero scenario criminale associativo come manifestazione delinquenziale sostanzialmente disomogenea, anche in ragione della persistente pluralità di consorterie attive, molto diversificate nell’intrinseca caratura criminale e non correlate
da architetture organizzative unificanti. I reati in materia di sostanze stupefacenti continuano a rappresentare le fattispecie più diffuse sul territorio, essenzialmente in ragione della soggiacente remuneratività degli illeciti. I costanti riscontri investigativi dimostrano che la regione, stante la sua peculiare posizione geografica, continua a porsi come importante crocevia per i traffici di stupefacenti, che interessano anche altre regioni italiane e che vedono le cointeressenze di realtà criminali di origine straniera, soprattutto albanesi».
E se questa è l’attività preminente, non mancano sul territorio pugliese e nei confronti dell’economia locale «condotte estorsive, esercitate con atti intimidatori e attentati in pregiudizio di imprenditori e commercianti, ed anche la pratica dell’usura; ambedue queste tipologie di reato sono infatti "efficacemente funzionali" ai complessivi progetti mafiosi in ragione dell’intrinseca incisività sul controllo criminale del
territorio».
E poi ci sono i reati "classici", per così dire "minori": il contrabbando di tabacchi, tecnologie e ogni genere di merce rubata, soprattutto auto ed elettrodomestici, ma anche farmaceutici e griffe clonate; e quello di "carne da macello", ovvero lavoratori "clandestini" da avviare ai campi pugliesi e campani, e donne e ragazze sia africane che dell’Europa dell’Est da avviare alla prostituzione; e infine i videopoker truccati e ogni genere di macchinette mangiasoldi da consegnare ad altrettante organizzazioni "semilegali" che si occupano di organizzare sul territorio la loro installazione e la raccolta dei proventi del gioco clandestino.
Non sembrano esserci, invece - a differenza della mafia siciliana e calabrese, forse per quel carattere di disunicità e fluidità di cui parla la Dia - quei fenomeni di penetrazione pervasiva e di "conquista" dell’economia legale da un lato, dai servizi alle imprese alla grande distribuzione, e dei grandi affari legati alla politica
dall’altro, a partire dagli appalti per le infrastrutture, la sanità, l’acqua, i rifiuti. O almeno non ancora, anche se bisogna essere avvertiti del fatto che alla fine i soldi del narcotraffico prima o dopo dovranno essere riciclati in altre attività. Va detto però che non è indifferente che alla guida della regione Puglia e di due grandi comuni come Bari e Taranto ci siano forze politiche e uomini come Nichi Vendola, Michele Emiliano e Ippazio Stefàno, che hanno storie molto diverse dai loro omologhi siciliani, calabresi ed anche campani.
Vediamo allora l’entità dei reati, in una regione meno scossa, se così si può dire, da grandi episodi cruenti che invece colpiscono in quantità e virulenza la adiacente regione calabra. I dati forniti dalla Dia per il 2008 parlano di un inarrestabile aumento dei cosiddetti "reati spia" dietro cui si nascondo le estorsioni: 19.514 danneggiamenti nel 2008, sui 18 mila circa del 2007, 16 mila nel 2006, poco più di 15 mila nel 2005, 14 mila nel 2004.
Stesso andamento in costante crescita anche per gli incendi dolosi che nel 2008 sono stati 1.435 contro 1.380 nel 2007, 1.200 nel 2006, poco più di mille nel 2005, 1.180 nel 2004.
E a fronte di tutti questi danneggiamenti, danneggiamenti a seguito di incendio, incendi dolosi, considerati appunto reati-spia, i fatti-reati di estorsione, accertati a seguito di denunce da parte delle vittime, sono stati invece limitatissimi, addirittura in diminuzione nel 2008, con 575 denunce, contro le oltre 700 del 2007, 630 nel 2006, 680 nel 2005, 690 nel 2004. Anche le denunce per riciclaggio e per usura sono in diminuzione: "solo" 109 fatti-reati di riciclaggio nel 2008 contro oltre 140 nel 2007, 118 nel 2006, 90 nel 2005, 105 nel 2004. Idem per l’usura: solo 33 denunce nel 2008, contro 50 nel 2007, 66 nel 2006, 68 nel 2005, 52 nel 2004.
Comunque, per gli investigatori, «l’incidenza primaria di questa tipica matrice criminale riguarda i reati in materia di stupefacenti. Non stupisce che il
controllo delle "piazze di spaccio" possa costituire il fattore chiave dell’instabilità degli equilibri mafiosi esistenti», che si contendono soprattutto il rifornimento di droga dei locali notturni e delle discoteche.
Non stupisce, allora, che un particolare tipo di narrativa "noir" che esce dalla penna di uno scrittore-magistrato-senatore come Gianrico Carofiglio, come ne Il passato è un terra straniera , grondi di quegli umori malati.