La canzone napoletana irriducibile documento sociale
 







Rosario Ruggiero




Impegnata da svariati anni, nel capoluogo campano, per il miglior impiego dell’individuale tempo libero, la Libera Università Europea Terza Età Campania organizza corsi ed, in particolar modo, eventi di ragguardevole significatività. Tra gli ultimi, la recente, applauditissima serata, condotta da Paola Callà tra le eleganti pareti del Circolo Ufficiali della Marina Militare di Napoli, dedicata a Renato Carosone, con le testimonianze dei nipoti dell’artista, Antonio e Maurizio Carosone, e l’esibizione del pianista Pasquale Cirillo e del cantante Pasquale Pirolli.
È stata l’occasione di ascoltare indimenticati successi del compianto musicista, “Tu vuo’ fa’ l’americano”, “Pigliate ’na pastiglia” o “Pianofortissimo”, ma soprattutto di indirizzare l’attenzione sullo straordinario fenomeno della canzone napoletana e sui suoi sviluppi nel tempo.
Patrimonio artistico incontestabilmente storico, per la sua durata oramai secolare, e decisamente
mondiale, per l’eterogeneità geografica dei suoi interpreti, da Claudio Villa ad Elvis Presley, Ella Fitzgerald, Enrico Caruso, Luciano Pavarotti o Giuseppe Di Stefano, dei suoi autori di versi, da Salvatore Di Giacomo a Gabriele D’Annunzio o Fabrizio De Andrè, e degli artefici delle sue musiche, da Salvatore Gambardella a Francesco Paolo Tosti o Gaetano Donizetti, la canzone napoletana è stata ed è, anche e soprattutto, documento storico, civile ed antropologico, testimoniandoci cambiamenti epocali e comportamenti sociali e psicologici, raccontandoci emotivamente della guerra, dell’emigrazione, dell’avvento dell’automobile, della lampadina elettrica, del cinematografo e della funicolare.
Non da meno, la produzione di Renato Carosone, pur mostrando apparente semplicità, spensieratezza e superficialità, rivela attenzione sociologica, ironia sostanziata e giudizio sui costumi.
Abbraccia stilemi  americani, ma per vestire con congruità la graffiante satira di “Tu vuo’ fa’
l’americano”.
È musica spensierata, ma per sostenere il fiducioso entusiasmo acritico di “Pigliate ’na pastiglia”.
È semplice, ma per cullare i candidi vagheggiamenti di “Maruzzella”.
La scelta del particolare tipo di musicalità si dimostra, insomma, calibrata e funzionale.
Sono gli ultimi esempi di una canzone napoletana che ha ancora una sua propria personalità.
E proprio in virtù della sua attenzione rivolta ai modi dì oltreoceano, non può non saltare subito alla mente il confronto con la più recente produzione del prematuramente scomparso Pino Daniele.
Ma se le canzoni di Renato Carosone, specialmente quelle sostanziate dai sapidi versi di Nicola Salerno, trovano chiara ragione di essere della loro particolarità, la produzione del più recente cantautore tradisce luoghi comuni e sottomissione culturale.
Il blues che tinge queste pagine è solo esterofilia immotivata, proprio quella stigmatizzata da “Tu vuo’ fa’ l’americano”, i testi (“Napule è ’na carta
sporca/ e nisciuno se ne ’mporta”) ripetono luoghi comuni da discussione al bar, triti e ritriti, sfiduciati e profondamente disfattisti, e l’uso gratuito della lingua inglese testimonia solo l’inclinazione generale alla scimmiottamento pedissequo, limitatezza nell’ambito dell’espressività verbale che ci dovrebbe essere più consona, e mancanza di personalità.
Ma la canzone napoletana resta, proprio per questo, vividamente documentaria.
Comunicherà, purtroppo, impietosamente, alle più attente generazioni future, un’epoca di miseria e sudditanza intellettuale che, a tutt’oggi, sciaguratamente sembra proprio non promettere niente di buono.