Giuseppe Terracciano, una grandezza ignorata
 







Rosario Ruggiero




Malgrado alcuni effetti anche deleteri della prepotente invadenza tecnologica di questi nostri attuali giorni, aspetti positivi pur vanno rilevati, non ultimo, certa espansione democratica delle opportunità di comunicazione, sicché l’espressione individuale più ampiamente pubblica, con strumenti come la rete informatica, nel bene o nel male, è certo ora ben più possibile di un tempo. Questo potrebbe sicuramente favorire la nascita di una sorta di nuovo Umanesimo, ossia di un ammirato recupero di documenti artistici del passato, rari quanto preziosi, e la loro diffusione, la qual cosa, si vedrà, talvolta offrirà spunti di riflessione anche amari, ma, ci si augura, al tempo stesso proficuamente stimolanti per migliorare. È questo il caso di un compianto artista, ragguardevolissimo quanto a tantissimi sconosciuto, Giuseppe Teracciano, pianista napoletano, docente al conservatorio “San Pietro a Majella” della sua città, dove insegnava Pianoforte
complementare (ossia i rudimenti pianistici che i corsi di studi dell’epoca richiedevano a violinisti ed altri musicisti non pianisti), ma soprattutto concertista straordinario. La sua incontestabile maestria è una scoperta che chi qui scrive ha fatto ascoltando registrazioni amatoriali che l’artista amava elargire ad allievi ed amici. Così, grazie alla generosa disponibilità dei pianisti Antonio Landolfi e Giovanni D’Aniello, fortunati possessori di alcune di queste rarità su nastro magnetico, e dello studioso Gennaro Lieto, all’uopo paziente artefice del riversamento del contenuto di quei nastri su dischi, ho avuto oggi la possibilità di divulgare su circuito informatico pregevolissime esecuzioni. Al pianista Achille Giordano devo l’immagine fotografica del maestro. Già da questi pochi ascolti viene fuori la figura di un virtuoso eccezionale. Giuseppe Terracciano rivela uno straordinario dominio dello strumento musicale per velocità, chiarezza, varietà ed efficacia timbrica, una musicalità signorile, incline al lavoro di cesello, ed una professionalità a tutta prova. Si ascolti con che raffinatezza musicale, con che impeccabilità esecutiva e con che malia timbrica, fatta di suoni piccoli e garbatissimi nei passaggi più veloci e di suggestiva delicatezza nei momenti di lirismo maggiormente intimo, viene interpretato il Rondò op. 1 di Fryderyk Chopin. Al confronto l’esecuzione di un innegabile gigante del pianismo mondiale odierno, come Vladimir Ashkenazy, viene da definire grossolana. Similmente si confrontino le variazioni del grande compositore polacco su un’aria nazionale tedesca nell’interpretazione di Giuseppe Terracciano ed in quella di un illustre pianista, di origini principesche, e specialista delle pagine del musicista di Żelazowa-Wola, quale fu Nikita Magaloff. Le altre esecuzioni del nostro (il concerto in re minore op. 15 di Johannes Brahms eseguito con l’orchestra di Norimberga diretta da Fritz Reiner, lo studio “La leggerezza” di Franz Liszt, la “Barcarola”, la “Berceuse”, le tre “Ecossaises” di Chopin e la difficoltosa “Islamey” di Balakirev) attualmente disponibili su rete informatica non possono che confermare l’impressione di un virtuoso di chiara rilevanza storica, di un maestro tanto notevole da rendere amara la scarsa diffusione attuale del suo magistero ed, al tempo stesso, entusiasmante la scoperta, un artista che merita senza alcun dubbio uno studio ed una conoscenza approfondita e la riscoperta e divulgazione di tutti i documenti artistici che gli concernono, per le quali cose queste righe vogliono essere speranzoso invito ed intenso augurio, fortemente persuase che, all’uopo, ogni serio contributo non potrà che risultare felice dono per il mondo della musica. Ma soprattutto, il caso Terracciano, dà molto da riflettere circa una realtà più o meno di sempre, più o meno di ogni luogo, eppure particolarmente atroce per quanto riguarda il conservatorio napoletano degli ultimi decenni: la vergognosa trascuratezza, ed il mancato sfruttamento che sarebbe stato doveroso fare di autentici prodigi mondiali ed epocali (e stiamo parlando di nomi come Sergio Fiorentino o Paolo Spagnolo, per rimanere solo nell’ambito pianistico), preferendo invece privilegiare, in un modo o nell’altro, figure decisamente ben lontane dal saper conferire a quella un tempo tanto gloriosa istituzione, altrettanto invidiabile e stupefacente dignità artistica.