Quei birilli in movimento sul tavolo della nostra democrazia
Napolitano: "Perché la riforma del Senato non minaccia la democrazia"
Scalfari: troppi poteri in mano al premier, ecco perché la riforma va cambiata
 











Eugenio Scalfari

La lettura dei giornali in questo inizio d’agosto è piena di fatti drammatici o comici, talvolta comici per la loro drammaticità, soprattutto quando toccano non più la cronaca ma la politica. "Hanno distrutto la Rai", ha detto Walter Veltroni dopo le nomine fatte dal governo e dai partiti. "Mi viene da ridere pensando alla Rai", ha detto Renzo Arbore che cinquant’anni fa la rinnovò da capo a fondo. A leggere queste cose ti viene da pensare.
Ma ancora di più il turbamento aumenta su temi che riguardano la struttura di fondo del paese: il Mezzogiorno, l’occupazione, le tasse. Tre ferite aperte e purulente che concorrono alla mancata crescita del paese, antiche quasi come l’unità d’Italia. La nostra storia nazionale ha avuto anche aspetti positivi, altri pessimi, ma Mezzogiorno, occupazione e fisco sono state tre zavorre permanenti che hanno ostacolato il nostro cammino verso la modernità facendo aumentare la corruzione, le mafie, la tendenza verso
regimi autocratici e addirittura dittatoriali.
Cristo si è fermato ad Eboli? Purtroppo no, se con la parola Cristo intendiamo il bene pubblico; si è fermato molto prima, a Cuneo, come disse alcuni anni fa il sindaco di quella città, oppure a Verona, a Bergamo, a Bologna, ma non più oltre. E adesso stiamo attraversando un guado assai rischioso. L’ha scritto Roberto Saviano su questo giornale a proposito di mafie e di corruzione, l’ha detto Ezio Mauro valutando la fragilità della nostra democrazia, l’hanno raccontato Michele Ainis e Angelo Panebianco sul "Corriere della Sera": siamo ad una svolta, ad un passaggio cruciale.
Ed è forse una delle rare occasioni che la maggioranza dei cittadini ne è consapevole, sia pure da posizioni diverse ed anche opposte.***
Il birillo rosso al centro del biliardo è Matteo Renzi, il castello dei birilli bianchi che lo attorniano, cioè i co-protagonisti del gioco, sono Berlusconi, Salvini, Grillo, Bersani. Ai bordi del biliardo ci sino alcuni
personaggi che suggeriscono le mosse della partita. Il più autorevole di tutti è Giorgio Napolitano. Mi sono spesso domandato - fuor di metafora -  perché lo fa e me lo chiedo ancora una volta dopo aver letto la lettera da lui inviata qualche giorno fa al "Corriere della sera". Il tema  -  di capitale importanza - è la legge costituzionale di riforma del Senato che arriverà in terza lettura ai primi di settembre a palazzo Madama. Sarà, così sembra, la battaglia decisiva che vede quasi tutte le opposizioni ed anche i dissidenti del partito democratico contrari, con un Berlusconi in posizione di attesa, decisiva ai fini del risultato.
La tesi di Napolitano è radicale: la legge deve essere approvata così com’è, nel testo già approvato da Camera e Senato nelle prime due letture: il Senato trasformato in una Autorità di controllo e di rappresentanza territoriale senza più alcun potere legislativo nazionale, ridotto a cento componenti. Questo suggerisce il Presidente
emerito e per lui non è certo un’improvvisazione: è su questa posizione da molti anni ed ora gli preme più che mai vederla portata a buon fine da Renzi che di un appoggio così autorevole ha certo molto bisogno.
Personalmente ho grande stima e amicizia per Napolitano. Ma su questo tema sono in totale disaccordo. L’ho già scritto in numerose occasioni perché si tratta di un tema che domina da mesi la politica italiana insieme alla riforma elettorale che vi è strettamente connessa. Purtroppo debbo ripetermi perché la lettera di Napolitano ripropone l’argomento e riapre il dibattito.
È senz’altro opportuno che il Senato sia privato del potere di votare la fiducia al governo, ma tutti gli altri poteri legislativi debbono restare integri. La nostra è una Repubblica parlamentare e la linea politica è indicata dal Parlamento mentre al potere esecutivo spetta  -  come dice il nome  -  il mandato di tradurre in atti esecutivi coerenti con la linea indicata dal
Parlamento, che rappresenta il popolo sovrano. In Parlamento si approvano le leggi che attuano la linea indicata dalla maggioranza che il Parlamento esprime; sicché il sistema elettorale deve essere analogo in entrambe le Camere. Analogo ma non identico, a cominciare dall’età dei componenti e da altre accettabili difformità.
Naturalmente è anche possibile che il Senato scompaia e si attui un sistema monocamerale; in gran parte d’Europa è così. In tal caso però le elezioni alla Camera debbono essere totalmente libere e rappresentare fedelmente il popolo sovrano. Il sistema monocamerale previsto dall’"Italicum" di Renzi è in larga misura un monocamerale di "nominati" dal governo in carica; la conseguenza è evidente: il potere legislativo è declassato e subordinato all’esecutivo, il presidente del Consiglio diventa così il personaggio che "comanda da solo" esattamente il contrario della democrazia parlamentare.
Mi pare molto singolare che Napolitano non veda questo risvolto della
abolizione di fatto del Senato. Un monocamerale in gran parte "nominato" dall’esecutivo ci avvia inevitabilmente all’autocrazia. E questo che si vuole? Non sono in grado ovviamente di conoscere in proposito il parere del presidente Mattarella, ma supponiamo per pura ipotesi che egli ravvisi un’illegalità in questa soluzione e rinvii la legge costituzionale alle Camere. La posizione di Napolitano sarebbe in quel caso estremamente imbarazzante e sarebbe come se il papa emerito Benedetto XVI facesse pubblicamente affermazioni teologiche diverse da quelle di papa Francesco. Vi sembra possibile una situazione simile?***
Naturalmente la dissidenza del Pd si rende ben conto che la posizione critica che ha deciso di assumere di fronte alla legge del governo può portare ad uno strappo e addirittura ad una scissione del partito. Perché lo fa? Perché non si limita ad astenersi dal voto o a non presentare emendamenti profondamente diversi dal testo della legge in discussione?
Se il motivo
fosse soltanto quello connesso alla legge sul Senato, la dissidenza del Pd potrebbe ancora una volta chiuder gli occhi ed accettare l’amaro boccone che Renzi ha deciso di farle trangugiare, ma in realtà ci sono due altri motivi: la vocazione autocratica che si esprime attraverso le due leggi elettorale e costituzionale e lo spostamento in corso del Pd da partito di centrosinistra a partito di centro. Non a caso Renzi ha come punto di riferimento storico Tony Blair, che trasformò il partito laburista inglese e proseguì portandola a compimento la politica di Margaret Thatcher.
Quello spostamento consentì a Blair di governare per due legislature di seguito e ancora ne mena vanto sostenendo che i voti in una società moderna si prendono al centro e non a sinistra. Sarà pur vero, ma quella che allora si chiamava Inghilterra non sembra abbia fatto passi da gigante dopo i lunghi anni di governo di Tony Blair; è rimasta un ex impero coloniale senza più colonie, ai margini dell’Europa e ormai
diviso in una federazione dove l’Inghilterra convive con le sovranità della Scozia, del Galles e dell’Irlanda. Tony Blair ha un bel passato personale ma storicamente è stato una foglia al vento e il suo Paese conta ben poco nell’Europa di oggi; nella società globale, conta niente del tutto. Ha scritto a questo proposito Angelo Panebianco: "Il partito della Nazione ha bisogno di sostituire il mancato radicamento sociale con la crescita di potere  dell’esecutivo. Per questo la riforma del Senato è oggi così importante e per questo la minoranza intende fare di tutto per batterlo e garantire la propria sopravvivenza. Sa che Renzi è uno che non fa prigionieri".
Tutto comprensibile. Ma che fine farà la democrazia parlamentare? Che fine farà la sinistra? E soprattutto che fine farà un Paese che sembra ricordarsi dell’Europa solo per ottenere libertà di "deficit spending"? Il "deficit spending" è importante, ma gli Stati Uniti d’Europa lo sono ancora di più. Quel tema però interessa
assai poco. Gli immigrati interessano molto di più, ma sul quel tema non è stato compiuto nessun passo avanti e l’altro ieri sono morte in mare altre centinaia di persone. Sono questi i risultati? Eugenio Scalfari,repubblica

Napolitano: "Perché la riforma del Senato non minaccia la democrazia"
Caro Eugenio,
l’ampio spazio che mi hai dedicato nel tuo editoriale di domenica ancora in uno sforzo di dialogo sulla materia che oggi ci vede divergere, è un nuovo segno della nostra amicizia. Amicizia antica, nutritasi di molte radici, esperienze e sentimenti comuni, che, pur nella diversità dei rispettivi percorsi personali, non rinuncia a ogni possibile chiarimento e avvicinamento che possa riuscire utile non solo a noi ma ben più in generale.
E vengo al dunque nello stesso tono, aperto a comprendere e rispettare le ragioni dell’altro, che ha caratterizzato il tuo editoriale. Scusandomi peraltro se dovrò ritornare brevemente su qualche argomento
da me sviluppato nell’intervento del 15 luglio in sede di discussione generale della 1^ Commissione del Senato, e forse anche da te non abbastanza considerato.
1. Innanzitutto, non ho, nemmeno nella mia lettera al Corriere della Sera , sostenuto che il testo della riforma debba essere approvato così come è attualmente. Ho anzi messo in evidenza in quel mio articolo l’importanza del richiamo da parte della presidente Finocchiaro sia ai consensi espressi da molti senatori e molti studiosi "auditi" in Commissione, sia dei consigli da essi ricevuti per "modifiche e puntualizzazioni" del testo in discussione al Senato, purché non risultino "dirompenti" rispetto all’impianto già definito della riforma.
2. Tu hai scritto che a me "preme più che mai vedere la riforma portata a buon fine da Renzi": ma a me sarebbe egualmente premuto che una tale riforma venisse varata da qualsiasi precedente Presidente del Consiglio. Si sta finendo per parlare dell’approvazione di questa riforma
essenzialmente in funzione di come si giudica, di che cosa ci si aspetta o si teme dall’attuale Presidente del Consiglio. Ma questi era anni luce lontano dall’entrare nel firmamento politico nazionale quando la necessità e l’idea di una revisione costituzionale, relativa in particolare al superamento del bicameralismo paritario venivano affermate da tutt’altre personalità politiche e di governo: a cominciare da subito dopo l’Assemblea Costituente, fino ai mesi del governo Letta (dalle conclusioni del gruppo di lavoro da me istituito nel marzo 2013 alla relazione della Commissione di cui fu presidente il ministro Quagliariello).
3. Come si può ritenere che la riforma in discussione costituirebbe il "contrario", segnerebbe la fine, della democrazia parlamentare? La posizione in materia di revisione costituzionale che tu riconosci caratterizzarmi da molti anni, è in realtà quella propria di molte personalità politiche e istituzionali confluite nel centrosinistra. Voleva forse Leopoldo
Elia "il contrario della democrazia parlamentare" quando propugnava "una nuova forma di governo parlamentare", vedendo nella "criticità dell’assetto costituzionale di vertice della Repubblica il punctum dolens più evidente"? O voleva forse il centrosinistra buttare a mare la democrazia parlamentare quando votò, nella Commissione bicamerale del 1997-1998, per il passaggio al "premierato", al governo cioè del primo ministro?
4. La questione essenziale è che non si lasci in piedi, attraverso l’elezione a scrutinio universale anche del Senato della Repubblica, la compresenza di due istituzioni rappresentative della generalità dei cittadini, sottraendo al Senato solo (e a quel punto insostenibilmente!) il potere di dare la fiducia al Governo. L’essenziale è dar vita a un nuovo Senato che arricchisca la democrazia repubblicana dando ad esso la natura di una istituzione finora assente che rappresenti le istituzioni territoriali. Altrimenti di fatto il superamento del bicameralismo
paritario non ci sarebbe. Rimarrebbero intatti i fattori di fragilità e debole capacità deliberativa dell’esecutivo, si lascerebbe il paese in quell’assoluta incertezza e tortuosità dei percorsi di approvazione delle leggi, che ha offerto spinte e alibi al degenerativo precipitare del rapporto Governo-Parlamento nella spirale dei decreti legge, dei voti di fiducia, dei maxiemendamenti e articoli unici. È dunque in discussione non uno schema astratto di riforma o un qualche puntiglio politico, bensì una esigenza vitale per un valido funzionamento, specie nell’attuale fase storica, del sistema democratico italiano. Senza farsi dominare da quella "paura dei pericoli" (evocata in una guizzante definizione di Gramsci), che può solo far naufragare per l’ennesima volta nell’inconcludenza il necessario processo riformatore. Si tenga ragionevolmente conto di ciò, nella libertà di sollevare legittimamente, senza far polveroni, qualsiasi questione relativa a posizioni, questioni, modi di governare che riguardino il Presidente Renzi.
Per finire, ringraziando te e la Repubblica per l’ospitalità, lascia che ti tranquillizzi: sono certo che non mi troverò, per nessun aspetto, in una posizione imbarazzante rispetto a qualsiasi parere possa esprimere il Presidente Mattarella, in quanto in ogni caso mi rimetterò con pieno rispetto all’autonomo esercizio del suo insindacabile mandato. E magari lasciamo stare certe analogie, che non tu ma qualche altro evoca con strumentale e ridicola rozzezza, fra un altro Emerito di somma autorità spirituale e un ex Presidente della Repubblica che la nostra Carta ha voluto senatore di diritto e a vita, ovvero membro attivo di una istituzione parlamentare a cui possa dare in piena indipendenza il contributo della sua esperienza. Non un titolo onorifico o una sine cura, ma un compito e un dovere di operoso impegno.
Giorgio Napolitano,repubblica

Scalfari: troppi poteri in mano al premier, ecco perché la riforma va cambiata
Alla lettera che Giorgio Napolitano mi ha inviato e che abbiamo pubblicato ieri nel nostro giornale rispondo soprattutto per ringraziarlo per le parole di amicizia e di stima che mi ha rivolto e che contraccambio con identici sentimenti. Non è la prima volta che questo accade tra noi, ma ieri leggendola mi sono sentito profondamente felice e voglio dirglielo. Viviamo in un mondo assai accidentato e in una società nella quale gli affetti, anche genuini, sono però molto spesso intrecciati ad interessi, convenienze, obiettivi concreti di tornaconti individuali e lobbistici. Non è il nostro caso, quel tipo di interessi non c’è mai stato tra noi, lui non ha mai avuto alcun tornaconto a volermi bene e neppure io. Talvolta è anzi accaduto – sia in occasioni lontane nel tempo e sia ora – che avessimo idee divergenti nella visione del bene comune del nostro Paese e quando è avvenuto ce lo siamo detti sia in private conversazioni sia in pubblico dibattito.
Così
sta avvenendo ora su due temi strettamente connessi: la riforma costituzionale del Senato e la legge elettorale che è stata riformata dopo la sentenza abrogativa di quella vigente da parte della Corte costituzionale. Non sono temi da poco: rappresentano una trasformazione radicale della nostra struttura politica e dunque della politica nelle sue forme. Prevedono una riforma che va ben oltre le modalità dell’articolo 138, destinato a consentire singoli mutamenti che incidono su aspetti marginali di attuazione dei principi e dei valori intangibili della "Carta" approvata dall’Assemblea costituente 67 anni fa.
È pur vero che alcuni di quei principi e dei diritti-doveri allora sentiti sono invecchiati e si sono rivelati insufficienti col passar degli anni per numerose ragioni dovute al trasformazioni internazionali, sociali, scientifiche, tecnologiche. E proprio per corrispondere a queste nuove esigenze sono stati numerosi i tentativi di porvi rimedio con diverse commissioni bicamerali,
la prima delle quali fu presieduta da Aldo Bozzi e poi dalla Iotti, da De Mita, da D’Alema. Cito a memoria e forse ne scordo altri, ma sono passati oltre trent’anni da quei tentativi, tutti falliti per varie ragioni.
Ha tentato anche Napolitano a ripercorrere quella via con il Comitato dei Saggi e poi con una Commissione presieduta da Quagliariello, peraltro più di orientamento che di obbligo procedurale. Ma i due disegni di legge dei quali stiamo ora parlando (elettorale e costituzionale, se sarà approvato) e sulle quali le nostre opinioni divergono produrranno un mutamento talmente radicale che a mio avviso equivale ad una riscrittura del contesto costituzionale che soltanto una nuova Costituente potrebbe affrontare. A cominciare dall’abolizione di una delle due Camere che insieme compongono il potere legislativo, instaurando un sistema monocamerale e introducendo in quest’ultimo un meccanismo che concede al premier di nominare un numero ragguardevole di capilista di varie
circoscrizioni, creando un "premierato" al posto della presidenza del Consiglio, con un sistema elettorale che al posto della legge proporzionale che ha regolato i rapporti tra il popolo sovrano e lo Stato per quasi cinquant’anni, destina un premio al partito che raggiunge il 40 per cento dei voti espressi, quale che sia il numero degli astenuti.
Non era mai accaduto che un fatto del genere avvenisse in Italia; bisogna risalire alla legge Acerbo di mussolinana memoria. La legge-truffa voluta da De Gasperi nel 1952 prevedeva il premio soltanto a quel partito o coalizione di partiti che avesse superato almeno di un voto il 50 per cento. Fu approvato dal Parlamento ma sconfitto dalle urne e non passò.
Questo è dunque il quadro entro il quale si svolge la nostra discussione.
Personalmente non ho un’affezione particolare al bicameralismo perfetto anche se – come risulta dallo studio dell’apposito Ufficio di palazzo Madama – il tempo medio impiegato dall’approvazione delle leggi in
un testo definitivo da entrambi i rami del Parlamento non è affatto lunghissimo: supera di poco i tre mesi e con pochi ritocchi può essere imposto un tempo minimale. Nel mio ultimo articolo ho prospettato un Senato cui sia tolto il potere di dare la fiducia al governo restando integri gli altri poteri. Napolitano obietta che questa proposta è irrazionale e probabilmente ha ragione. In altri miei interventi avevo infatti addirittura proposto che il Senato fosse interamente abolito; a rappresentare Regioni e Comuni di fronte allo Stato ci sono già apposite conferenze, basterebbe conservarle, semmai precisando meglio i poteri legislativi di competenza degli Enti locali e la loro autonomia.
Quindi niente Senato, ma solo Camera che ingloba interamente il potere legislativo ed è la sua maggioranza – pur nel rispetto delle minoranze – a determinare la linea politica al potere esecutivo che ha il compito di tradurla in atto. Ove sviluppasse una linea diversa, la Camera gli toglierebbe la
fiducia.
È compatibile questo principio che pienamente realizza quella Repubblica parlamentare che l’attuale Costituzione configura, con il premierato? Dipende da che cosa si intenda con quella parola. Se si intende che il presidente del Consiglio ha un potere maggiore di quello dei ministri e in caso di contrasto può destituirli senza che questo comporti un rimpasto e un voto di fiducia, questo sì, è pienamente compatibile.
Ma se il premier adotta una politica difforme da quella indicata dalla maggioranza della Camera, allora no, non è compatibile. Naturalmente nel corso della legislatura la maggioranza della Camera può anche cambiare, senza che con questo si debba andare a nuove elezioni. Ai tempi della Dc questi mutamenti avvennero molte volte: Fanfani sostituì Scelba, Moro sostituì Fanfani e fu a sua volta sostituito da Colombo e poi da altri. Moro comunque dominò per decenni il partito (e quindi il Parlamento) con maggioranze che dal centrismo passarono ai socialisti di
Pietro Nenni e poi addirittura con il Pci di Enrico Berlinguer.
Tutto avvenne con il sistema di voto proporzionale, non ci fu mai, dico mai, il premio di maggioranza che dà al premier troppi poteri.
Questo è lo schema. È pur vero che oggi i tempi sono cambiati. Mi auguro che cambino ancora. Se – come spero – nasceranno gli Stati Uniti d’Europa, i governi nazionali perderanno una parte notevole della loro sovranità e altrettanto ne perderanno i rispettivi Parlamenti. Ci sarà anche in Europa una sinistra e una destra e sarà un bene la loro alternanza.
Oggi in Italia c’è un centro e un po’ di destra. La sinistra, caro Giorgio, non c’è più. Tu non ne parli ma sono convinto che nel tuo intimo te ne rammarichi. Per come ti conosco tu non sei un marxista, sei un liberal-democratico, esattamente come me. È la cultura del partito d’Azione. Una sinistra liberale, è questo che ci caratterizza, ma a me sembra lontana anni luce e ne sono francamente angustiato. Eugenio
Scalfari,repubblica