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Napolitano apre i giochi per la successione Tutti i precedenti tra veleni e franchi tiratori
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Come in Conclave chi entra Papa esce spesso cardinale, anche in Parlamento per l’elezione del presidente della Repubblica si può entrare favoriti e uscire il più delle volte disarcionati. Sembra una maledizione. L’ultima volta, nell’aprile 2013: il dodicesimo capo dello Stato sembrava già deciso. Su Franco Marini voti e consensi ne erano stati trovati in abbondanza. Grazie a Pierluigi Bersani, allora segretario del Pd, e al lavorìo di Gianni Letta, uomo ombra di Silvio Berlusconi. Tutti d’accordo per portare alla suprema carica l’ex presidente del Senato. Si sarebbe dovuto solo aspettare la prima votazione utile per portare a compimento il progetto. Invece, ecco spuntare il cecchino di turno, Matteo Renzi, sconfitto dallo stesso Bersani alle primarie Pd del novembre precedente: «Votare Marini significa fare un dispetto al Paese», annuncia Renzi a sorpresa, «i nostri parlamentari non lo voteranno mai». Fine della corsa per Marini, anche se è solo l’inizio del massacro. Nel giro di poche ore la fronda democratica riesce ad immolare persino una vecchia gloria come Romano Prodi, liquidato nel segreto dell’urna da una pattuglia di 101 franchi tiratori che fanno precipitare il Parlamento nello stallo totale. Ci vuole la rielezione dell’undicesimo presidente ancora in carica, l’usato sicuro di Giorgio Napolitano, per tirare le istituzioni fuori dalle secche. ELEZIONE AL TRITOLO Eccola in opera la maledizione del Sacro Collegio che sembra incombere anche sui piani più alti delle istituzioni repubblicane, una sventura che, nella corsa alla presidenza, ha segnato i destini di personaggi come Benedetto Croce e Carlo Sforza, Amintore Fanfani e Aldo Moro, Leo Valiani e Giovanni Spadolini, Antonio Giolitti e Giulio Andreotti. Tutti uomini di peso e candidati favoriti, tutti bruciati a un passo dall’elezione o nel segreto dell’urna. Poche volte la battaglia per il Quirinale si è risolta al primo voto. Il privilegio è toccato solo a tre presidenti: Enrico De Nicola (1946), Francesco Cossiga (1985) e Carlo Azeglio Ciampi (1999). In molti casi la rincorsa è stata lunga e logorante: 21 scrutini sono stati necessari per eleggere Giuseppe Saragat (1964), 23 per Giovanni Leone (1971) e 16 per Oscar Luigi Scalfaro nel maggio del 1992: «A mandarlo al Quirinale non sono stati i 1000 grandi elettori del Parlamento», commentò amaro Indro Montanelli, «ma i mille chili di tritolo che hanno ucciso Giovanni Falcone». BASTARDI SENZA GLORIA Il fatto è che manovre, insidie e trabocchetti fanno tutt’uno con l’elezione presidenziale. Un momento delicato per la vita delle istituzioni che ha visto consacrata non a caso una figura singolare: quella del franco tiratore, il cecchino implacabile che ha avuto sempre discrete rappresentanze tra i grandi elettori di tutti i partiti. Chi sono costoro? «Bastardi che affiorano nelle zone paludose del nostro ordinamento parlamentare», ebbe a dire Bettino Craxi. Gente scaltra, senza scrupoli e comunque decisiva per mettere a segno i colpi di mano più impensabili pur di eleggere alla prima carica repubblicana un amico o provocare la caduta di un alleato poco affidabile. Ne spiegò bene l’importanza anche una vecchia volpe democristiana come Carlo Donat Cattin quando nel 1964, per illustrare la strategia della sinistra Dc intenzionata a far fuori il candidato ufficiale del partito Giovanni Leone, indicò i tre strumenti che potevano essere utilizzati per raggiungere l’obiettivo: «Veleno, coltello e», appunto, «franchi tiratori». L’AMICO AMERICANO Tra i candidati alla presidenza di volta in volta indicati dalla Dc questi fucilieri hanno fatto una vera strage. Compaiono la prima volta in occasione dell’elezione del successore del primo presidente Enrico De Nicola. Correva l’anno 1948 e sconfitto il Fronte popolare, il leader democristiano Alcide De Gasperi era intenzionato a rafforzare la propria leadership con l’elezione di un proprio uomo. De Gasperi aveva il suo candidato, il ministro degli Esteri Carlo Sforza, molto gradito anche all’alleato americano. Sembrava fatta, vista la forza della maggioranza degasperiana, solo che Sforza non piaceva alla sinistra Dc di Giuseppe Dossetti che quest’appiattimento filoamericano proprio non digeriva. Fu così, grazie al voto dei franchi tiratori scudocrociati, che alla fine spuntò Luigi Einaudi, un liberale di prim’ordine che si rivelò anche un buon capo dello Stato. VELENI PER CESARE Stessi veleni nel 1955 quando a far le spese di questa «piaga e mal sottile delle votazioni presidenziali che sono i franchi tiratori» (la definizione è di Giulio Andreotti) fu l’allora presidente del Senato Cesare Merzagora, scelto da Amintore Fanfani, fresco vincitore del congresso democristiano con il quale aveva praticamente archiviato l’era degasperiana. Con tanto sostegno e quello di altri capi-corrente, Merzagora pensava di aver l’elezione in tasca: venne invece impallinato dalla minoranza scudocrociata (Andreotti e Guido Gonella, in testa) che nel segreto dell’urna gli fece mancare i voti per eleggere l’altro Dc, Giovanni Gronchi. TIRO A SEGNI Fu uno choc per Merzagora e una pagina nera per la Dc. Ma passati sette anni, nella tornata del 1962, il leader della corrente dorotea Antonio Segni dimostra di saper mettere a frutto la lezione. Insieme ad Attilio Piccioni, ancora una volta è in campo Fanfani, che in questa occasione tesse alleanze a destra e a manca per scalare lui stesso il Colle supremo. Aldo Moro, l’altro cavallo di razza Dc, vuole invece il sardo Segni, capo doroteo famoso per aver varato la riforma agraria. Moro vorrebbe tanto inserirlo in una rosa ufficiale di candidati da presentare al partito e agli alleati. Ma Segni non vuole sentirne parlare: uscire allo scoperto, visti i precedenti, potrebbe rivelarsi fatale. Così, rimane nell’ombra per quanto può e dopo una estenuante battaglia parlamentare e l’uscita di scena degli amici democristiani Fanfani e Piccioni, grazie anche all’opera di reclutamento dispiegata in Parlamento e fuori dalla “Brigata Sassari” di Francesco Cossiga, il 6 maggio 1962 riesce a spuntarla sul socialdemocratico Giuseppe Saragat, il candidato delle sinistre. AMICI PERICOLOSI Passano gli anni e nuove elezioni si susseguono. Non cambiano però le abitudini all’intrigo e al tradimento dei grandi elettori, all’interno e all’esterno della Balena Bianca. Nel dicembre 1964 la Dc allinea una serie di autorevoli candidati, tra i quali Giovanni Leone e il solito Fanfani. I leader democristiani si affrontano senza esclusione di colpi e ostacolandosi così tanto da pregiudicare le loro possibilità di vittoria. Sul fronte opposto se la battono il socialdemocratico Giuseppe Saragat e il socialista Pietro Nenni. Il braccio di ferro va avanti per giorni, si vota anche la sera di Natale. Alla fine, i democristiani si ritirano e tra Nenni e Saragat la spunta quest’ultimo grazie al sostegno decisivo del Pci. 1971: sembra l’occasione giusta per Aldo Moro, ma gli “amici” democristiani Flaminio Piccoli, Paolo Emilio Taviani e Mariano Rumor gli preferiscono Giovanni Leone. Il candidato democristiano trova sulla propria strada ancora Pietro Nenni: la battaglia è estenuante, ma dopo 23 scrutini (l’elezione più lunga della storia repubblicana) la vigilia di Natale Leone ce la fa ottenendo la maggioranza con 518 voti. Arriviamo al 1978, all’elezione anticipata del nuovo presidente in seguito alle dimissioni di Leone. Stavolta, è passato poco più di un mese dall’assassinio di Moro da parte delle Brigate rosse, a fronte dei candidati democristiani Benigno Zaccagnini, Andreotti e il solito Fanfani, prende quota il nome di Ugo La Malfa. E’ il garante della politica di Unità nazionale e con il sostegno del Pci sembra proprio potercela fare. Solo che il segretario socialista Bettino Craxi vuole a tutti i costi un esponente del suo partito, in testa Antonio Giolitti. La lotta è dura, nessuno riesce a spuntarla. Alla fine la quadra si trova sul nome di un’altra gloria del Psi, Sandro Pertini che, con oltre 800 voti a favore, mette tutti d’accordo con una elezione plebiscitaria che gli permetterà di inaugurare uno dei settennati più popolari della storia repubblicana. VOTI A PERDERE Senza storia l’elezione al primo turno di Francesco Cossiga nel 1985. Sette anni dopo, tragico 1992, la rissa sottobanco dei franchi tiratori torna invece a dominare la scena. Sullo sfondo si profila la figura di Giulio Andreotti, anche se il candidato forte della Dc è il segretario del partito Arnaldo Forlani. A quest’ultimo i cecchini scudocrociati fanno però mancare una decina di voti decisivi. Si va così per le lunghe, manovre e tradimenti paralizzano il Parlamento. Nella corsa entrano altri papabili, come Giovanni Conso e Giuliano Vassalli. Si fa a un certo punto largo anche l’ipotesi Giovanni Spadolini, leader repubblicano. E’ stato il grande picconatore Cossiga a raccontare come, dopo il diffondersi della voce che i vertici democristiani sembravano intenzionati ad indicarlo come l’uomo da sostenere, Spadolini avesse già organizzato lo staff per il Quirinale e scritto il discorso di insediamento. Purtroppo per lui non se ne fece niente e la battaglia riprese più cruenta di prima. L’opinione pubblica era stremata. Ci volle la strage di Capaci del 23 maggio per mettere tutti d’accordo. Nel cordoglio generale, due giorni dopo venne finalmente eletto Oscar Luigi Scalfaro, uomo della vecchia guardia democristiana. SARO’ FRANCO Arriviamo al 1999, quando nella corsa al Quirinale sembra proprio non esserci partita. Fioriscono le candidature di stampo democristiano: in prima fila, il presidente del Senato Nicola Mancino e il ministro degli Interni Rosa Russo Jervolino. Ma dietro le quinte il presidente del Consiglio in carica Massimo D’Alema ha stipulato un accordo di ferro con il segretario del Partito popolare Franco Marini: quest’ultimo, secondo i patti, deve andare al Quirinale. Non tutti però concordano e a far saltare il banco ci pensa il segretario dei Democratici di sinistra Walter Veltroni che, con i buoni uffici del braccio destro di Silvio Berlusconi, Gianni Letta, raccoglie i consensi di Gianfranco Fini e Pierferdinando Casini e, con il sostegno di D’Alema, il 23 maggio porta al Quirinale Carlo Azeglio Ciampi: «L’ho fatto per l’Italia», dirà D’Alema. «Hai fatto gli affari tuoi», replica Marini. RE GIORGIO Il 2006 è l’anno di Giorgio Napolitano, anche se, in una lunga lista di candidature eccellenti (Giuliano Amato, Emma Bonino e Anna Finocchiaro, tra le altre) il nome forte per la presidenza stavolta è proprio quello di Massimo D’Alema. L’ex presidente del Consiglio sembra crederci ma, al solito, a togliergli la terra sotto i piedi è, secondo il racconto del defunto Cossiga, soprattutto il “fuoco amico” di vari esponenti del centrosinistra, in testa il leader della Margherita Francesco Rutelli. D’Alema prova a resistere ma, con Berlusconi deciso a far correre il fido Gianni Letta, alla fine deve arrendersi convergendo sul vecchio compagno di partito Giorgio Napolitano che, il 10 maggio, raggiunge il quorum e viene eletto presidente della Repubblica per la prima volta. La seconda, è storia recente, sarà nel 2013 quando, a causa della fronda dei renziani e delle imboscate dei franchi tiratori del Pd finirono nella polvere prima Marini e poi Romano Prodi. Primo Di Nicola,l’espresso
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