I palazzi di Stato non li vuole proprio nessuno La vendita del patrimonio pubblico è un flop
 











L’Isola di Poveglia
È alle stampe il prossimo capitolo del libro dei sogni della finanza pubblica. Il ministero dell’Economia, l’Agenzia del demanio, la Cassa depositi e prestiti (Cdp) e gli enti locali stanno preparando l’elenco di immobili pubblici da privatizzare nel 2015. È la seconda tranche, dopo il pacchetto trasferito a Cdp nel 2014.
L’idea è nata con l’esecutivo Monti quando il ministro dell’Economia Vittorio Grilli aveva annunciato che l’Italia avrebbe venduto patrimonio pubblico per almeno un punto di pil all’anno. L’incasso preventivato era di 15 miliardi di euro, una somma sovrastimata in modo assurdo e superiore ai proventi da privatizzazioni che si concretizzano in un anno nell’intero territorio dell’Ue. Per le sole cessioni immobiliari in Italia si stimava un incasso fra 3 e 5 miliardi di euro.
Dalla fine del 2012 sono cambiati due governi, il ministro dell’Economia è Pier Carlo Padoan, ma l’obiettivo resta lo stesso. Secondo lo slogan dei
funzionari di Stato addetti alla vendita, gli immobili pubblici devono muoversi. Ogni anno si mette su piazza un pacchetto da 500 milioni di euro, lo si vende e si libera il percorso alle successive ondate di dismissioni. Come ogni slogan, suona bene. Come ogni slogan, racconta la realtà in modo semplificato. Che cosa, in effetti, stia accadendo in questa liquidazione straordinaria è abbastanza lontano dall’enfasi delle aspettative.
Incominciamo dalla lista. È ancora provvisoria e sarà ufficializzata nel mese di gennaio ma l’elenco di 23 immobili demaniali preso in visione da “l’Espresso” è sostanzialmente quello definitivo.
Il pezzo singolo di maggior valore è l’ospedale militare San Gallo di Firenze, quotato 28,3 milioni di euro per 17 mila metri quadri in uso al ministero della Difesa e alla Curia. Poi si possono citare la Cavallerizza Reale di Torino (10 milioni di euro), oggi occupata dal Teatro Stabile, l’isola di Poveglia, di fronte al Lido di Venezia, stimata 2,8 milioni
di euro. Sempre a Venezia, sul Canal Grande c’è palazzo Duodo (12 milioni), palazzo Schiavi a Udine (2,3 milioni di euro) e una ventina di altri edifici, per lo più di uso militare oppure ospedaliero, a Cremona, Padova, Piacenza, Ravenna, Trieste, Catanzaro.
A volte, insieme agli immobili ci sono aree molto estese come la caserma Vittorio Emanuele III di Trieste (oltre 91 mila metri quadrati) o la Mameli di Milano in zona Niguarda con i suoi 101 mila metri di superficie fondiaria che un tempo ospitavano il terzo reggimento bersaglieri e che la giunta Pisapia aveva ipotizzato di destinare ai rom, scatenando le proteste leghiste. Spesso sono immobili affittati come quelli occupati dall’Ente Cassa di risparmio di Firenze che, secondo i documenti del Demanio, ha un contratto in scadenza con un canone di 283 mila euro all’anno “versato in misura pari al 10 per cento”.
Mentre si definiscono le cessioni per il 2015, si può già guardare all’esito dell’operazione varata l’anno scorso. La
prima tranche è stata messa sul mercato all’inizio del 2014 dopo una selezione durata qualche mese. Erano 40 fra ex caserme, isole d’incanto, splendidi palazzi storici nelle più belle città d’Italia.
A un anno di distanza il bilancio sintetico è il seguente. Cessioni: zero. Soldi incassati: zero. Spese per interessi passivi, personale e servizi di brokeraggio esterno per trovare candidati all’acquisto: diversi milioni di euro. Gli ottimisti della volontà si sono scontrati con il paradosso del mattone: a valori alti può corrispondere un prezzo pari a zero quando l’offerta langue.
Ci sono state una quarantina di manifestazioni di interesse, alcune dall’estero. Quasi tutte si sono arenate. A Firenze, che con Venezia raccoglie il gradimento più alto, si è arrivati a una fase più avanzata, la cosiddetta due diligence, per l’area di Costa San Giorgio, che ingloba parti di un convento del tredicesimo secolo, da destinare a usi alberghieri. E c’è un preliminare d’acquisto per l’area
fiorentina dell’ex caserma Vittorio Veneto, a 250 metri da Ponte Vecchio. Ma si parla di cose relativamente piccole.
Tra i beni di taglia maggiore offerti a gennaio 2014 dal fondo Fiv, gestito dalla Cdp, qualcosa si è mosso intorno all’ex caserma romana di via Guido Reni (quartiere Flaminio), che dovrà ospitare la nuova Città della scienza. La giunta Marino ha decretato la prima parte di una trasformazione urbanistica che prevede anche uno sviluppo con aree commerciali e residenziali in una zona poco lontana dal Maxxi. Il prossimo passaggio è la gara per cercare lo studio architettonico al quale affidare il masterplan dell’area.
Procedono, anche se a rilento, le trattative per insediare l’accademia della Guardia di finanza nel sito degli Ospedali riuniti di Bergamo (120 mila metri quadri). Prima che i finanzieri firmino il contratto di affitto, bisognerà però mettersi d’accordo su chi deve accollarsi la ristrutturazione. E non è una trattativa facile considerato che i lavori sono
stimati in qualche decina di milioni di euro.
I costi di ammodernamento sono un onere economico forte rispetto a strutture pensate per usi speciali, militari o sanitari, spesso abbandonate da anni. Succede anche con la trasformazione delle caserme bolognesi Sani, Mazzoni e Masini, un progetto dove pure la collaborazione fra i funzionari dello Stato e il sindaco di Bologna Virginio Merola procede bene. L’area che si vuole restituire alla città è così grande che i primi sopralluoghi i dirigenti della Cdp li hanno fatti in automobile. Con il benestare della Soprintendenza, che spesso è della partita, bisognerà cercare un accordo sulle demolizioni da eseguire e sulle volumetrie da rendere disponibili. E bisognerà anche risolvere la questione delle occupazioni abusive che interessano le aree dismesse della zona.
Un caso molto intricato è la riconversione dell’Ospedale a Mare al Lido di Venezia, dove da poco c’è stato l’avvicendamento fra Est capital di Gianfranco Mossetto e Hines
Italia di Manfredi Catella come partner privato incaricato della valorizzazione. Anche qui c’è stato un lungo contenzioso con il Comune su chi dovesse sostenere le spese impreviste per la bonifica dell’area. Le dimissioni del sindaco Giorgio Orsoni, sotto accusa per l’inchiesta sul Mose, non hanno certo contribuito a velocizzare un progetto che si trascina da anni. Da quando la Cdp ha rilevato l’immobile, dando un contributo sostanzioso alle finanze municipali, ci sono stati soltanto costi per la messa in sicurezza della zona e il giallo sui documenti introvabili delle bonifiche fatte dal Comune.
È in fase di progettazione avanzata lo sviluppo sugli immobili del Policlinico di Milano, che però è un’operazione precedente alla lista del 2014, e si spera di fare lo stesso con le quattro palazzine storiche di corso Lanza, nella zona collinare di Torino, la più pregiata della città.
Gli altri immobili dell’annata 2014 non si sono mossi. Ad esempio, per l’isola veneziana di
Sant’Angelo, richiesta da una ricca signora inglese, si dovrà aspettare la decisione sul nuovo canale per il transito delle grandi navi in laguna che interessa proprio Sant’Angelo. Insomma, gli ostacoli non mancano.
Alla Cassa depositi e prestiti fanno il possibile con l’aria di dire: è un lavoro sporco ma qualcuno lo deve fare. Lo Stato ha bisogno di liquidi e la società guidata dal presidente Franco Bassanini può solo rispondere obbedisco e tenersi qualche mal di pancia. Solo l’amministratore delegato della Cassa, Giovanni Gorno Tempini si è permesso una sortita polemica quando ha detto: «Non siamo accumulatori seriali di immobili». Ma il risultato finale rischia di essere proprio questo. È vero che i tempi di una privatizzazione del genere sono per forza di cose lunghi. È vero che non è colpa del Demanio e che non è colpa della Cdp. Potrebbe essere colpa del Mercato, se il mercato non avesse ragione per definizione.
Di chi è colpa allora? Forse di un certo modo di interpretare
la politica degli annunci intorno a operazioni complesse, che mostreranno qualche effetto fra molti anni ma che vanno contabilizzate subito e devono generare pronta cassa, in modo da rassicurare chi ha timori sullo stato dei conti pubblici. En passant, servono anche a rimettere in moto il poltronificio creando nuove società, nuovi consigli d’amministrazione sotto l’egida del diritto privato e con gli stipendi pagati dal contribuente.
È il caso di Investimenti immobiliari italiani sgr (Invimit), una società pubblica di gestione dei fondi immobiliari progettata per raccogliere una montagna di denaro. Invimit, nata a marzo del 2013 con il premier Mario Monti dimissionario da tre mesi, è presieduta da Vincenzo Fortunato, ex capo di gabinetto di Giulio Tremonti e commissario liquidatore della Stretto di Messina. Amministratore delegato è l’ex direttrice dell’Agenzia del Demanio, Elisabetta Spitz. Invimit sgr prevede ricchi emolumenti per i suoi manager (90 mila euro per Fortunato, 300
mila per Spitz) ma è di fatto un doppione di Cassa depositi sgr (Cdpi) poco giustificabile a fronte di vendite inesistenti.
D’altra parte, il Tesoro italiano ha già messo sul mercato quello che era semplice monetizzare, con le cartolarizzazioni di Tremonti (Scip 1 e Scip 2) lanciate negli anni 2001 e 2002. Adesso resta il fondo del barile e non è abbastanza per attirare i ricchi di tutto il mondo. Gianfrancesco Turano,l’espresso