Lussemburgo, il buco nero delle tasse
 











C’è un buco nero nel cuore dell’Europa, un piccolo Stato grande come la provincia di Bergamo, ma con la metà degli abitanti, appena 550 mila. È il Lussemburgo, membro fondatore dell’Unione europea, stretto tra Francia, Germania e Belgio. È un Paese ricco, ricchissimo. La sua fortuna sono le tasse. Quelle degli altri. Nel senso che da almeno mezzo secolo è diventato la meta preferita delle aziende alla ricerca di un trattamento fiscale di favore.
Dalle multinazionali alle banche, dalle imprese famigliari ai grandi marchi della moda, migliaia di società hanno trovato rifugio all’ombra del fisco leggero dell’unico Granducato superstite sulla carta geografica del mondo. Un sistema cresciuto anche grazie al lungo governo di Jean-Claude Juncker, premier per diciotto anni e ora alla guida della Commissione europea.
I documenti che “l’Espresso” pubblica in esclusiva per l’Italia raccontano nei particolari il funzionamento di una macchina che ha
consentito al più piccolo Stato dell’Ue di accumulare una ricchezza straordinaria, con reddito pro capite di oltre 100 mila dollari, il più alto del mondo, quasi il triplo di quello italiano.
Sono 28 mila pagine di dossier confidenziali che descrivono gli accordi siglati da oltre 300 società di tutto il mondo, tra cui molte italiane, con le autorità lussemburghesi. Grazie a queste intese, il peso delle tasse è stato ridotto in misura sostanziale, se non azzerato. Il materiale presentato nell’inchiesta de “l’Espresso” è stato raccolto da un network giornalistico americano, The International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ), e viene pubblicato in contemporanea da 26 testate di diversi Paesi. I contratti sono tutti siglati Pricewaterhouse (Pwc), la multinazionale della revisione di bilancio e della consulenza che ha assistito le aziende nel negoziato con il governo del Lussemburgo.
Nei file troviamo alcuni  dei marchi più conosciuti del business mondiale: da
Amazon a Ikea, da Deutsche Bank a Procter & Gamble, da Pepsi a Gazprom, fino alle italiane Finmeccanica e Intesa e ai fondi di Deutsche Bank e di Hines che nel nostro Paese hanno realizzato affari miliardari transitando dal Lussemburgo per risparmiare sulle tasse. Il sistema funzionava, e ancora funziona, secondo un tacito, reciproco accordo. Le aziende spostano nel Granducato flussi finanziari per centinaia di miliardi di dollari e in cambio hanno la possibilità di un trattamento tributario d’eccezione. A farne le spese sono i Paesi d’origine delle società, costretti a rinunciare al gettito sugli affari dirottati  nel paradiso fiscale. Secondo ICIJ, sui 95 miliardi di dollari di profitti che le grandi società americane hanno realizzato oltremare nel 2012, passando per il Granducato, hanno lasciato al Fisco del Lussemburgo poco più di un miliardo di dollari, appena l’1,1 per cento.
IL JOLLY VINCENTE
La carta jolly del Lussemburgo, il cuore del reticolo
di norme che giocano a suo favore, sono i ”tax ruling”, altrimenti definiti anche “advanced tax agreement” (ATA). I contratti che “l’Espresso” ha potuto consultare riguardano solo una parte delle migliaia e migliaia di ruling siglati. I testi ottenuti dal network giornalistico ICIJ sono relativi alle transazioni preliminari presentate, per l’approvazione, dalla Pricewaterhouse, a nome dei propri clienti, al “bureau d’imposition”, conosciuto in gergo come “sociétés 6”. In genere vanno da 20 a 100 pagine, a volte molte di più, specialmente quando vengono riportate, come promemoria, precedenti richieste. I protocolli descrivono architetture finanziarie molto complicate, con rimandi a testi di legge e intese internazionali. Molto spesso si fa ricorso a strumenti finanziari ibridi - è il caso dei prestiti infragruppo - che in sostanza permettono di schivare le tasse sia nel Paese di origine di chi li utilizza,  sia, in pratica, in Lussemburgo.
RIFUGIO SOTTO
ASSEDIO
I ricchi affari della piazza finanziaria del Lussemburgo, cresciuta anche negli ultimi anni nonostante la crisi internazionale, hanno finito per provocare la reazione dei suoi grandi vicini. E sono partiti gli attacchi, soprattutto dall’interno della Ue. Il Granducato è sotto assedio. Paesi europei come Francia, Germania, Italia e anche gli Stati Uniti, sembrano decisi a chiudere le falle dell’evasione e dell’elusione fiscale internazionale. D’altra parte le cifre parlano chiaro. Ogni anno dai conti dell’Unione spariscono 1.400 miliardi di euro. Pochi mesi fa la Commissione di Bruxelles si è scagliata contro il meccanismo dei “tax ruling” mettendo sotto inchiesta Amazon e Fiat Finance, accusate di aver spuntato un aiuto di Stato illegale. Il mese scorso, poco prima di lasciare l’incarico, il responsabile Ue della concorrenza, lo spagnolo Joaquin Almunia, ha voluto mettere in chiaro che «con bilanci pubblici così striminziti è importante che le grandi multinazionali versino la  loro giusta quota di tasse». Sotto tiro sono entrati così anche i già citati strumenti finanziari ibridi. Entro il 2015 il trattamento fiscale di questi titoli dovrà essere uniforme in tutti i Paesi dell’Unione europea, Lussemburgo incluso. Del resto Algirdas Semeta, commissario uscente alla tassazione, è stato chiaro: «Quando si abusa di regole per evitare di pagare qualunque tassa, allora dobbiamo cambiarle».
Fin qui le dichiarazioni d’intenti e i primi, ancora parziali, interventi concreti. Certo è che per un paradossale scherzo della storia, alla presidenza della Commissione europea, chiamata a serrare le fila nella lotta ai paradisi fiscali, è approdato all’inizio di novembre Jean Claude Juncker, primo ministro del Lussemburgo dal 1995 al 2013, dominus e in parte artefice di un sistema fiscale che ha consentito al Granducato di arricchirsi alle spalle del resto del mondo.
LA DIFESA DUCALE
Nel marzo scorso Juncker aveva rilasciato
un’intervista dai toni accesi al settimanale tedesco “Der Spiegel”, in cui respingeva sospetti e attacchi. «L’affermazione dei socialisti francesi che io favorisco attivamente l’evasione fiscale è un insulto contro il mio Paese e la mia persona», ha scandito il politico più potente del Lussemburgo, designato al vertice della Commissione dai capi di Stato e di Governo dei Paesi dell’Unione e poi confermato dal Parlamento con i voti dei popolari e di gran parte dei socialisti. A luglio, però, mentre si avvicinava il voto per la nomina al vertice della Commissione, i toni di Juncker si sono addolciti e in un discorso tenuto a Bruxelles ha promesso di «combattere evasione ed elusione fiscale (…) per introdurre principi etici nello scenario fiscale europeo».
Il pressing ai confini del Lussemburgo ha però già portato risultati fino a qualche tempo fa impensabili. A metà ottobre, i ministri delle Finanze dei 28 Paesi Ue hanno trovato un compromesso sullo scambio automatico di informazioni
fiscali. E per la prima volta anche il Lussemburgo  si è impegnato a collaborare con le autorità degli altri Stati membri impegnati in indagini sull’evasione tributaria. L’accordo non entrerà in vigore prima del 2017 e alcuni esperti nutrono dubbi sulle modalità con cui l’intesa di massima raggiunta a livello politico sarà poi tradotta in norme concrete. È la prima volta, però, che il segreto bancario viene messo in discussione dai Paesi, come anche l’Austria, che all’interno della Ue avevano fin qui trovato ogni scappatoia legale per non allinearsi alla posizione comune. I politici del Granducato si stanno preparando ai tempi nuovi. Si spiega anche così l’offensiva di pubbliche relazioni lanciata dal ministro delle Finanze lussemburghese Pierre Gramegna, che il prossimo 2 dicembre sarà in Italia, a Milano, per illustrare alla comunità finanziaria i numeri e le occasioni d’affari del suo Paese. Il mese scorso però lo stesso Gramegna ha ribadito: «Il Lussemburgo non è un paradiso fiscale. Lo dico forte e chiaro».
ITALIAN CONNECTION
Questione di punti di vista. L’Unione europea sembra decisa a metter fine alla disparità di trattamento che hanno fin qui consentito al Paese di Juncker di attirare enormi flussi capitali in fuga dalle tasse. Moltissime le società italiane, anche se di recente la pressione della nostra Agenzia delle Entrate ha convinto molti imprenditori, alcuni grandi nomi come Prada e Dolce & Gabbana, a fare marcia indietro verso l’Italia. Nei documenti riservati della Price compare una folta rappresentanza tricolore. Oltre alle società già indicate, l’elenco comprende altre banche, come Unicredit e Sella. Ma soprattutto la Hines, il grande gruppo Usa che a Milano ha realizzato investimenti miliardari per ridisegnare un intero quartiere del centro città. C’è anche la N&W Global Vending di Valbrembo, citata con il “Project Neptune”. È l’operazione che ha portato nel 2008 la numero uno nelle macchine di distribuzione di
cibo e bevande ad essere acquistata da Barclays e Investcorp, una finanziaria del Bahrein, con interessi negli Stati del Golfo. Menzionato anche il gruppo Rinascente Upim finanziato nel 2009 dal braccio immobiliare della Deutsche Bank, la Deutsche Bank Real Estate Global Opportunities IB Fund. Incursioni in campo immobiliare sono state fatte in Italia anche dal gruppo inglese European Property Investors. Un altro business del 2010 in Lussemburgo riguarda Sportfive Group, leader mondiale delle agenzie di diritti per il calcio, legato a 250 club e a una decina di campionati nazionali. In Italia cura i diritti di marketing e commerciali di Sampdoria, Atalanta e Juventus. Nei file ottenuti da “l’Espresso” ci sono operazioni che riguardano il nostro Paese condotte da trentuno società di tutti i settori: una parte viene descritta nell’articolo a seguire, le altre saranno pubblicate nelle prossime settimane.
MULTINAZIONALE CHE PASSIONE
La crema dei più grandi gruppi
mondiali è di casa in Lussemburgo, dove si mettono a punto piani per cospicui finanziamenti. La palma va a Procter & Gamble (Gillette, prodotti di bellezza, igiene orale, profumi): quasi 80 miliardi di dollari a suon di certificati che coinvolgono anche la filiale italiana di Roma. Segue l’americana Abbott Laboratories (prodotti farmaceutici): oltre 50 miliardi di dollari. E, ancora, tra i tanti protagonisti, Bayerische Landesbank (l’ottava banca tedesca): 500 milioni di euro; Carlyle Group (private equity): 240 milioni di sterline e 150 milioni di dollari; Eon Group (tedesco, energia, gas): 2,55 miliardi di euro; Gazprom (la più grande compagnia russa, gas): 4 miliardi di dollari; Glaxo Smith Kline (farmaceutica): 6,25 miliardi di sterline; Heinz (Usa, food company): 5,7 miliardi di dollari; il fondo Permira, che controlla Hugo Boss insieme ad alcuni membri della famiglia Marzotto: 284 milioni di sterline. Ma gli accordi sono relativi anche ad altri colossi, come il fondo Blackstone, Accenture e Burberry. Un esempio? Stando ai file esaminati dal network, nel 2009 Amazon grazie alla deduzione di royalties per molte centinaia di milioni ha dichiarato per le sue attività europee profitti per soli 14,8 milioni di euro, limitandosi a pagare 4,1 milioni di tasse nel Granducato.
PRICE WATERHOUSE
Il colosso della revisione scrive nel suo sito di essere il più grosso fornitore di servizi professionali del Lussemburgo. E giorno dopo giorno continua a crescere. Attualmente è forte di 2.455 dipendenti, ma l’anno scorso aveva previsto di assumere ancora entro la fine del 2014.  In risposta alla richiesta di commenti ricevuta da ICIJ, Pricewaterhouse ha ribattuto che la documentazione utilizzata è «datata», composta di informazioni «rubate»: inoltre, «il furto è all’esame delle competenti autorità». La multinazionale ha poi ribadito che le sue consulenze fiscali rispettano «le leggi internazionali, europee e locali». E che, nella sua
attività si attiene al «codice di condotta della società».
“MONSIEUR RULING"
“Sociétés 6” è, come s’è visto, l’ufficio delle imposte familiare ai manager della Pricewaterhouse. Che qui entrano per discutere delle loro proposte fiscali. Ed è qui che per più di vent’anni ha regnato Marius Kohl, 61 anni, arbitro e giudice unico, soprannominato “monsieur ruling”, in pensione dal 2013. Di recente l’ha intervistato il “Wall Street Journal”. Dipingendolo così: porta capelli raccolti con un codino, occupava una stanza modesta, ingentilita da un calendario Pirelli, dono dell’azienda di pneumatici che a lui si era rivolta per alcune questioni. Al giornale Usa ha dichiarato: «Il lavoro che ho fatto ha certamente portato benefici al Paese, per quanto forse non in termini d’immagine». È stato definito «il guardiano dell’unica porta attraverso cui le società possono entrare nel paradiso fiscale del Lussemburgo». Aveva la mano rapida, monsieur Kohl. In un solo giorno, è
riuscito a firmare ben 39 pareri positivi,  lui che sovrintendeva alla gestione di migliaia di “tax agreement”.  Una velocità costante, tradotta in 548 “comfort letters”, ovvero il timbro ufficiale dell’approvazione finale, in otto anni: una ogni cinque giorni. Per la gioia della finanza mondiale in cerca di risparmi fiscali. Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti,l’espresso
Ecco gli italiani col fisco su misura
I grattacieli giganteschi che hanno cambiato il panorama di Milano. I palazzi storici della Regione Sicilia. Gli investimenti affidati dai risparmiatori italiani alle grandi banche. Gli affari internazionali dell’industria statale delle armi. C’è un pezzo d’Italia nelle 28 mila pagine di documenti fiscali lussemburghesi scoperti dall’International Consortium of Investigative Journalists e pubblicati da “l’Espresso” in esclusiva nazionale.
Centinaia di pagine di documenti che riguardano il nostro Paese. Sono i patti segreti con il fisco del Granducato.
Grazie a questi accordi, in gergo ruling, alcuni grandi investitori sono riusciti a ridurre al minimo le imposte da pagare in Italia su importanti operazioni. Affari miliardari tassati pochissimo grazie alla generosa legislazione lussemburghese. Un nome su tutti: il colosso immobiliare Hines , che con i capitali raccolti in Lussemburgo ha ridisegnato, tra grattacieli, giardini e nuove strade, una fetta importante del centro di Milano, tra i quartieri Isola, Garibaldi, Porta Nuova e Varesine. Hines è guidata in Italia da Manfredi Catella , a lungo finanziato da Salvatore Ligresti , poi uscito di scena causa dissesto. Ma nelle carte esaminate da “l’Espresso”, insieme a banche come Intesa San Paolo , Unicredit , Marche e Sella o aziende di Stato come Finmeccanica , compaiono anche i fondi immobiliari targati Deutsche Bank , che insieme al gruppo Pirelli di Marco Tronchetti Provera si sono messi in affari con la Regione Sicilia dell’allora governatore Salvatore Cuffaro , poi condannato e tuttora in carcere.
I documenti che “l’Espresso” ha potuto consultare riguardano solo i ruling siglati con la consulenza di Pricewaterhouse Coopers (Pwc), la multinazionale della revisione di bilancio e della consulenza attivissima in Lussemburgo. Spesso gli accordi fanno riferimento a precedenti intese siglate con il fisco del Granducato. In questi casi risulta quindi più difficile fornire dati precisi sulle somme in gioco e i vantaggi concreti ottenuti dalle aziende. Le carte di Hines, per esempio, riguardano un ruling dell’agosto 2010, che richiama solo stralci di quattro intese precedenti, siglate a partire dal 2006. Ma il risultato finale resta chiaro: le holding lussemburghesi che tirano le fila del grande intervento edilizio a Milano hanno visto ridursi a pochi spiccioli le tasse sui loro profitti. A tutto vantaggio degli investitori, a cominciare dalla stessa Hines e dal gruppo Ligresti. Senza contare che le società del Granducato controllano fondi immobiliari di diritto
italiano, gli stessi che hanno gestito il grande business dei nuovi quartieri nella metropoli lombarda. E anche i fondi immobiliari, nel nostro Paese, sono soggetti a un particolare regime fiscale molto favorevole ai sottoscrittori.
Al vertice della costruzione targata Hines c’è un fondo americano collegato a una società anonima con base nel paradiso fiscale del Delaware. Da qui si diramano tre strutture di holding e sub-holding lussemburghesi, dove compaiono i soci italiani. La maggioranza è sotto il controllo di Hines. Poi ci sono i Ligresti, tramite la holding Premafin o le compagnie di assicurazioni Fonsai e Milano , che all’epoca del ruling (2010) erano controllate dalla famiglia. Una quota minore (3,44 per cento) fa capo alla Coima , la società di famiglia di Catella. Le tre strutture societarie sono state finanziate (anche dai soci italiani, secondo il ruling) con speciali strumenti, chiamati “bond ibridi”. Sono titoli con caratteristiche molto simili alle obbligazioni, cioè
debiti da rimborsare con gli interessi. La legge lussemburghese permette però di considerare questi stessi bond come “equity”, cioè capitale di rischio investito in azioni. Proprio questo è uno spiraglio in cui si infilano gli investitori alla ricerca di sconti sulle tasse. Nel documento protocollato il 25 agosto 2010, i consulenti di Pwc presentano al Fisco del Granducato «le conclusioni raggiunte nel nostro incontro di oggi»: l’obiettivo è considerare quei bond come azioni, quindi quote di capitale. In questo modo gli strumenti ibridi finiscono sotto l’ombrello della cosiddetta Pex (che sta per “participation exemption”): grazie a questo regime fiscale diventano esenti da tassazione le plusvalenze realizzate con la vendita di quote azionarie. Una forma di Pex è stata introdotta anche in Italia, nel 2004, dall’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ma la versione del Lussemburgo resta molto più vantaggiosa: nel Granducato è possibile sottrarre dalle tasse l’eventuale deprezzamento della partecipazione, oltre alle minusvalenze in caso di vendita. Due benefici che in Italia sono esclusi.
Hines Italia, interpellata da”l’Espresso”, dichiara di «occuparsi solo dei fondi italiani», per cui «non è coinvolta nelle questioni fiscali degli investitori esteri». Mentre Coima precisa di «non aver mai preso parte» ai ruling e comunque la sua «limitata partecipazione al fondo Isola»è «soggetta esclusivamente alla fiscalità italiana».
I consulenti di Pwc si sono occupati anche di un affare che ha per protagonisti la Deutsche Bank, il più grande istituto di credito tedesco, e la Regione Sicilia dell’allora governatore Cuffaro. L’operazione, che ha preso le mosse nel 2007, ruota attorno al fondo Global Opportunities, gestito da Deutsche Bank attraverso una piramide societaria che parte dallo Stato americano del Delaware, transita da Malta e infine approda in Lussemburgo. E qui, all’ombra della favorevole legislazione fiscale del Granducato, prosperano le
holding che tirano le fila di alcuni fondi immobiliari italiani. Col nome in codice di un vino, “Malvasia”, il ruling datato 2010 identifica l’operazione che ha portato sotto l’ombrello di Global Opportunities un gran numero di palazzi ceduti dalla Regione Sicilia. E confluiti in un apposito fondo immobiliare. Un’operazione discussa, perché l’ente pubblico si riprendeva in affitto quegli stessi palazzi pagando canoni milionari. Polemiche anche sulla selezione dei soci privati: accanto a big del livello di Prelios (all’epoca controllata da Pirelli), compare anche un immobiliarista di Pinerolo, Ezio Bigotti.
Il ruling sottoposto alle autorità fiscali del Lussemburgo riguarda anche in questo caso il trattamento fiscale da riservare ai bond ibridi. Questa volta però i consulenti giungono alla conclusione, approvata dalla controparte, che quei titoli vadano trattati come debito. Il risultato finale è comunque favorevole agli investitori. La legge del Granducato, infatti, è molto più
generosa di quella italiana anche sugli interessi: quelli passivi si possono detrarre senza limiti dai redditi, mentre per quelli attivi la tassazione è bassa o nulla. Irrisorie anche le imposte sui profitti, regolate proprio dai ruling: le holding pagano l’1 per cento; le sub-holding lo 0,25; le sub-subholding lo 0,125 per cento. Significa che per ogni milione di profitti incamerati in Lussemburgo, la tassazione massima è di diecimila euro.
Il gruppo Pirelli, contattato da “l’Espresso”, ha precisato che «nessun ruling è mai stato chiesto» da alcuna sua società e neppure dalla partecipata lussemburghese «Bicocca sarl», per cui gli «eventuali benefici fiscali» potrebbero riguardare altri.
Per molti anni chi ha investito tramite il Lussemburgo ha fatto affari d’oro anche grazie a una distorsione di una direttiva europea (chiamata “madre-figlia”), originariamente varata per evitare casi di “doppia tassazione”. Come dire che una società-figlia può distribuire profitti esentasse a una
società-madre con sede in uno Stato diverso. Il presupposto logico è che le tasse le paghi quest’ultima nel suo Paese. Ma il sistema dei bond ibridi ha spesso consentito di realizzare una “doppia non tassazione”: sui redditi legati a questi particolari titoli non viene pagata nessuna imposta, né in Italia né in Lussemburgo. Una prassi consacrata proprio dai ruling. L’Ue, nei mesi scorsi, ha varato una modifica di quella direttiva: in futuro i prestiti ibridi non potranno più azzerare le tasse in entrambi i Paesi. Ma i profitti già incamerati restano intoccabili.
I ruling lussemburghesi sono stati utilizzati anche da banche italiane per “ottimizzare” i carichi fiscali. Ad esempio la Banca delle Marche, che oggi è in gravi difficoltà, nel 2005 aveva creato in Lussemburgo una società di gestione di un fondo. Nel 2010 l’allora vertice dell’istituto ha trasferito alla società lussemburghese altre attività, di cui il ruling non precisa il valore. A quel punto la banca si rivolge alle
autorità per stabilire un valore di “avviamento” e quindi la misura dell’ammortamento da dedurre fiscalmente. Ruling analoghi sono stati firmati nel 2009 da Unicredit International e nel 2008 dalla San Paolo Bank, una controllata lussemburghese dell’istituto di Torino, che a fine 2007 si è fuso con Intesa. Dal punto di vista italiano, il problema è la provenienza dei beni da ammortizzare. Arrivano dall’Italia? E come sono stati trasferiti alla controllata in Lussemburgo? Sono possibili due ipotesi. In caso di cessione, si porrebbe una questione di correttezza del prezzo dichiarato: una direttiva europea, infatti, impone di rispettare parametri oggettivi, proprio per evitare manovre fiscali tra società dello stesso gruppo. Nel caso opposto di scissione, invece, il riconoscimento di un avviamento in Lussemburgo, con relativo ammortamento, costituisce un vantaggio fiscale non riconosciuto in Italia.
Banca delle Marche, interpellata da “l’Espresso”, precisa che la sua società
lussemburghese «promuoveva fondi la cui gestione era delegata a Eurizon del gruppo Intesa» e comunque «è stata liquidata nel dicembre 2011», per cui oggi «il ruling non ha più nessun effetto». Da Unicredit e Intesa San Paolo, per ora, nessun commento.
Anche Banca Sella nel 2009 ha siglato un ruling, con l’obiettivo di trasferire le perdite della sua controllata lussemburghese a una nuova società, nata da una scissione. Questo tipo di beneficio è ammissibile anche in Italia, ma a condizioni molto restrittive, di cui non c’è traccia nel ruling. Confermando il contenuto dell’accordo, Banca Sella ha chiarito a “l’Espresso” di aver «cessato ogni operatività in Lussemburgo nel 2011», quando ha ceduto la sua controllata «al gruppo Credit Andorra». Quindi «il ruling ha permesso di trasferire all’acquirente i benefici fiscali delle perdite». Mentre la scissione «non ha trasferito alcuna attività dall’Italia al Lussemburgo».
Nei documenti di Pwc spunta anche un gruppo pubblico come
Finmeccanica, che nel 2010 si è rivolto alle autorità lussemburghesi per ristrutturare le proprie società nel Granducato evitando tasse aggiuntive. Un riassetto in due mosse: liquidazione di Mecfint, con distribuzione dell’attivo alla società-madre; e fusione di Finance dentro Aeromeccanica, controllata dalla capogruppo italiana. Finmeccanica per ora non ha risposto alle richieste di chiarimenti. Mentre il testo del ruling non specifica quali volumi di denaro siano entrati e usciti dalle società lussemburghesi di Finmeccanica, attive fin dagli anni Novanta. Di certo in quel periodo migliaia di aziende hanno trasferito la tesoreria in Lussemburgo, per gestire i prestiti tra società interne al gruppo approfittando dei vantaggi fiscali previsti anche per gli interessi (sia passivi che attivi). È dunque verosimile che Finmeccanica abbia creato le sue finanziarie lussemburghesi per raccogliere prestiti all’estero e abbattere le imposte in Italia. Se fosse così, il risultato sarebbe memorabile: perfino un’azienda di Stato avrebbe utilizzato il Lussemburgo per pagare meno tasse. Allo stesso Stato italiano che la controlla.Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti,l’espresso
ha collaborato Alfredo Faieta