Il mondo? E’ ancora diviso da troppi muri
 











E’ errato sostenere che i muri sono fatti di materiale inerte. Ce n’è uno, quello di Berlino, che, cadendo il 9 novembre di 25 anni fa, ha figliato un po’ ovunque. I calcinacci hanno alzato un polverone che è andato a depositarsi nei luoghi critici di frattura del Pianeta, generando, come un’araba fenice, copie in sedicesimo del capostipite: perché la Storia non era finita, il nuovo ordine non poggia affatto su solide basi come da troppo ottimistiche previsioni. E anche laddove non sono sorte barriere fisiche, la frantumazione ne ha prodotte di mentali, ancora più difficili da abbattere benché invisibili.
Se i muri offendono, oltre all’etica, l’estetica, ci si può consolare coi writers che li usano come tele, dove i dipinti sono l’apologo dello sberleffo pur se segnalano la rabbia impotente. O con la considerazione che, per ogni blocco di cemento eretto, prolificano i saltatori di muri per quella pulsione imprescindibile degli umani di andare
“oltre le colonne”, come già l’Ulisse di Dante. Magre consolazioni, tuttavia, punture di spillo a un immaginario serpente che continua ad allungare la sua coda, inghiotte terre e destini.
Dopo Berlino si calcola all’ingrosso che almeno 8.000 chilometri di “pareti della terra” siano state edificate (migliaia d’altre previste e in attesa) per i più svariati scopi ma un unico programma: separare i vivi. E se talvolta si è reso necessario per non dover contare i morti, nella maggioranza dei casi è l’egoismo da esclusione, la sindrome da cittadella assediata che ha guidato gli ingegneri. Noi e loro, in un delirio di incomunicabilità che esclude parole-feticcio di solo una generazione fa: tolleranza, convivenza.
C’è ovviamente un rapporto diretto tra guerre e muri. E Israele, avamposto d’Occidente piantato in Medioriente, ne è l’emblema. Nel 2002 il governo di Gerusalemme ha progettato il “fence”, parola inglese ambigua che declina il suo significato fino al dolce “siepe”. In realtà
730 km di cemento, fili elettrificati, sensori che avvolgono la Cisgiordania e Gaza. Per i palestinesi “muro di apartheid” con cui il nemico ha inglobato una fetta dei Territori oltre la linea verde. È servito a far cessare, di fatto, la seconda Intifada o “Intifada dei kamikaze” non a garantire la sicurezza assoluta se c’è bisogno di una replica anti-incursioni nel poroso Sinai.
E se la Striscia di Hamas, in particolare, è stata sigillata anche dal lato Egitto e pattugliata davanti al mare, dove è impossibile costruire muri. L’ostinazione dei miliziani, bloccati via terra e cielo, ha escogitato la trovata del sottosuolo e i tunnel sono diventati il motivo dell’ultima battaglia, la scorsa estate. Quando ancora bisogna capire cosa si inventerà Netanyahu, qualora lo Stato Islamico (Is) dovesse piantare le sue bandiere nere al confine siriano. Un altro muro? Sarebbe continuità della politica. Non allontanerebbe la sensazione che non sarà il cemento a garantire la sopravvivenza dello
Stato ebraico, costretto a blindare i propri cittadini, oltre che con le frontiere ermetiche anche nelle colonie in espansione in aree ostili.
Lo Stato Islamico e la sua resistibile (ma non contrastata) avanzata sono il nuovo incubo. Per evitare una pericolosa contaminazione coi guerrieri del califfo Abu Bakr al-Baghdadi, i turchi hanno dato un nuovo impulso al progetto del muro di 900 chilometri lungo il confine con la Siria. Inizialmente ideato per impedire l’ingresso dei disperati clandestini, ora si rivelerà utile per i fondamentalisti. I quali però hanno numerose altre opzioni lungo una regione uscita dal controllo delle autorità statuali. Ben prima dell’incursione del califfo, però, l’Iraq aveva conosciuto le steli di cemento, gli hesco bastion, danno collaterale dell’invasione di George Bush figlio. Sono state obbligati a cintarsi, pena gli attentati, le ambasciate soprattutto occidentali così come Sadr City, l’esteso quartiere sciita di Baghdad a causa delle rivalità esplose
tra diverse confessioni religiose. Tanto da rendere ogni tragitto nella regione una corsa contro ostacoli spesso invalicabili.
Così come pieno di ostacoli è il cammino di coloro che decidono per l’esilio e scelgono l’Europa. Hanno un primo alt in Turchia ma, ammesso che lo superino, ogni frontiera porta la sua pena. Tra Turchia e Grecia il filo spinato di una decina di chilometri lungo il fiume Evros. Tra Turchia e Bulgaria, un muro di 107 chilometri approvato di recente per impedire che sia un colabrodo il fianco sud-est dell’Europa. Il Mediterraneo, a sud, è un muro d’acqua e una tomba per migliaia di clandestini, mentre, a sud-ovest, la Spagna si è attrezzata nelle exclave di Ceuta e Melilla, la porta d’ingresso dal Maghreb.
Eppure non è finita perché le città stesse si stanno attrezzando, sull’esempio del “muro di Padova”, una recinzione lunga 80 metri e alta tre sulla via Anelli, ufficialmente necessaria per motivi di ordine pubblico: in realtà la creazione di un ghetto per
immigrati.
L’Europa di Berlino dice di volersi difendere dall’ invasione con lo stesso strumento servito in passato per sedare furibondi contenziosi ideologico-politici. Resistono 99 muri (48 km in totale) in Irlanda del Nord tra cattolici e protestanti nonostante una dichiarata pace. Così come non è stato ancora abbattuto quello di Nicosia (Cipro) tra la parte greca e la parte turca. Retaggi d’epoca che sembrano persino obsoleti, oltre che nani, per dimensioni, rispetto alle esigenze di un mondo globale per la velocità delle comunicazioni e del passaggio immediato dei capitali finanziari da un capo all’altro, ma sempre più ermetico nelle sue frontiere chiuse per il forestiero. O il derelitto.
Il record appartiene alla barriera lungo la frontiera tra India e Bangladesh (4100 km previsti nel 1993, oltre 3000 già alzati), voluta da Delhi per fermare il flusso di immigrati clandestini, combattere i traffici illegali e le infiltrazioni di terroristi. E sembra una guerra tra poveri.
L’India si è tutelata anche verso lo storico nemico Pakistan (3300 chilometri) che a sua volta ha voluto mettere un ostacolo tra sé e il turbolento Afghanistan dei talebani (2400) nonostante una comunanza anche etnica e uno storico ruolo da protettore. Meno conosciuto, per restare in Asia, il muro tra Uzbekistan e Tagikistan. Per tornare nel Golfo, l’Arabia Saudita della dinastia reale teme in fondamentalisti in arrivo dallo Yemen anche se ha detto di blindare la frontiera della penisola a causa dei clandestini. E c’è anche il cemento tra Oman ed Emirati Arabi Uniti, tra Kuwait e Iraq a dispetto dei sogni panarabisti di leader visionari del tempo che fu.
Se è storia la “cintura di sicurezza” di 2700 chilometri nel Sahara voluta dal Marocco per proteggersi dalle incursioni del Fronte Polisario, l’Africa entra nella hit parade anche con la barriera elettrificata tra Botswana e Zimbabwe: gli animali selvatici sono il pretesto, i profughi in transito dal secondo Paese al primo il vero
movente.
Valicato l’Atlantico, ecco il muro tra Stati Uniti e Messico che corre in Arizona Texas e California, per i quali sono stati inizialmente usati materiali di scarto bellici della prima guerra del Golfo. Lo avviò Clinton nel 1994, poi è stato ampliato fino a diventare l’emblema della cesura tra il sud straccione e il nord opulento. Ma è nei Paesi Brics, dove è più larga la forbice del benessere, che i quartieri si dividono lungo la linea povertà-ricchezza. Come ad Alphaville, San Paolo del Brasile, 60 km che proteggono i signori dal popolo delle favelas.
Resta da dire del muro più longevo, tra Corea del Nord e Corea del Sud. Ha 61 anni si sviluppa per 246 chilometri. Così sorpassato dalla storia che sarebbe ora dimandarlo in pensione. Perché anche lui, cone tutti i suoi nipotini, ha un destino segnato: ogni muro nasce per per essere prima o poi abbattuto.Gigi Riva,l’espresso